di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*
In una sua recente decisione, resa con Ordinanza 2761 del 6 dicembre 2023, depositata in data 30 gennaio 2024, la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato il caso relativo alla legittimità o non del licenziamento per giusta causa di una dipendente che, sebbene fisicamente assente dal luogo di lavoro, tuttavia aveva dato prova di avere “impegnato” l’orario di lavoro nell’assolvimento dell’attività cui era tenuta, in modalità “da remoto”.
Il caso, più precisamente, aveva per protagonista una dipendente di una Società cooperativa che aveva ricevuto in appalto da altre Società committenti l’obbligo di provvedere ai servizi di pulizia nei cantieri e, pur investita del ruolo di coordinatrice dei dipendenti impegnati nello svolgimento dei citati servizi, era, tuttavia, spesso assente dal luogo di lavoro. L’istruttoria celebrata nei pregressi gradi aveva messo in luce che ella aveva, comunque, assolto – come detto, “da remoto” – al suo obbligo di controllo degli altri dipendenti cui era istituzionalmente preposta:
- sia richiedendo e ricevendo l’autorizzazione all’accesso alla sim aziendale per potere operare “da remoto”, grazie alla rete della società;
- sia richiedendo e ottenendo dai colleghi presenti in loco la documentazione (c.d. “fogli presenza” dei dipendenti addetti ai cantieri, per l’esecuzione dei servizi in appalto) funzionale alla verifica del rispetto dei turni di lavoro dei dipendenti assoggettati alla sua sorveglianza.
Sul piano più strettamente giuridico, la questione riguardava, dunque, la configurabilità o non di una giusta causa di recesso datoriale, che la Società datrice di lavoro aveva ritenuto di individuare nella pretesa violazione dell’orario di servizio da parte della dipendente.
Questi essendo i fatti rilevanti, la Suprema Corte, con la decisione sopra indicata, per certo applicabile anche a casi simili a quello in esame, stante la portata più generale del principio di diritto espresso nell’Ordinanza in commento, ha ritenuto che nel caso di specie l’addebito elevato a carico della dipendente non fosse fondato, non potendosi configurare, per il sol fatto che la stessa fosse sovente assente, fisicamente, dal luogo di lavoro, né un inadempimento alla sua obbligazione di lavoro né una violazione dell’orario di lavoro contrattualmente pattuito con la Società sua datrice di lavoro.
A valere di tale conclusione, la Suprema Corte, in particolare, ha evidenziato che il recesso datoriale per giusta causa della Società avrebbe potuto essere ritenuto legittimo soltanto a condizione che, alternativamente, la datrice di lavoro:
- avesse contestato e dimostrato in giudizio l’inadempimento all’obbligazione di lavoro della sua dipendente, ovvero il mancato raggiungimento dell’apporto di risultato da parte di quest’ultima: ad esempio allegando e provando che nessuna delle mansioni proprie del suo ruolo di coordinatrice fosse suscettibile di essere svolta “da remoto”;
- avesse allegato e dimostrato che la dipendente impiegava il tempo “dedicato” all’orario di lavoro ad altre attività, estranee alle mansioni cui era contrattualmente adibita, così evidenziando, in re ipsa, una forma di inadempimento qualificato imputabile a quest’ultima e, per l’effetto, la ricorrenza dei presupposti per la giusta causa di recesso.
L’Ordinanza in questione è, dunque, rilevante anche al di là del perimetro di applicazione del singolo caso specifico che ne ha occasionato l’emissione in quanto mette in luce l’importanza di una attenta formulazione della contestazione disciplinare, con puntuale indicazione degli addebiti, nonché la imprescindibilità di un rigoroso assolvimento degli oneri allegatori e probatori a carico del datore di lavoro in fattispecie analoghe a quella in commento, a pena della declaratoria di illegittimità del recesso datoriale.
*Avvocati Studio Legale Daverio & Florio