II FENOMENO DEL GHOSTING NEL RAPPORTO DI LAVORO
di Filippo Moschini*
L’intento dell’odierna normativa in materia di dimissioni di cui all’art. 26 del D. Lgs n. 151 del 14.09.2015 era finanche meritevole, mirando infatti a contrastare l’odioso fenomeno delle “dimissioni in bianco” in base al quale in passato molte lavoratrici e lavoratori, al momento dell’assunzione, si vedevano sottoporre alla firma non solo il contratto di lavoro, ma anche una loro lettera di dimissioni che il datore di lavoro, a proprio piacimento, avrebbe potuto poi tirare fuori dal cassetto, datare e far valere, laddove in futuro non avesse più inteso proseguire il rapporto lavorativo.
Sta di fatto che tale normativa, in base alla quale le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro vanno effettuate, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ha dato il via al fenomeno, parimenti odioso ma ben più diffuso rispetto al precedente, del ghosting dal rapporto di lavoro.
Tale ultimo termine, recentemente coniato per descrivere coloro che interrompono una relazione semplicemente sparendo, ben si adatta infatti per descrivere il comportamento di quei lavoratori che insoddisfatti del loro rapporto lavorativo, ma bisognosi di una qualche forma di reddito per sostentarsi, abbandonano da un giorno all’altro il loro posto di lavoro (sparendo, per l’appunto) al fine di farsi licenziare per assenza ingiustificata e maturare il diritto all’indennità di disoccupazione, NASpI, erogata dall’INPS per un periodo fino a un massimo di 24 mesi a partire dalla data di cessazione del rapporto.
La circostanza che il fenomeno sia dilagante e, peraltro, gravi assai sulle casse del predetto Ente previdenziale, è dimostrato anche dal fatto che l’attuale governo, nel DDL Lavoro del 04.05.2023, aveva originariamente inteso introdurre una norma apposita in base alla quale il rapporto lavorativo del dipendente assente dal lavoro per più di 5 giorni doveva intendersi risolto per iniziativa di quest’ultimo e pertanto per dimissioni volontarie. Come noto, tuttavia, tale norma non vide mai la luce per ragioni non meglio note e ancora oggi i datori di lavoro si trovano a dover subire tali condotte gravemente scorrette senza avere idonei strumenti normativi per fronteggiarle.
Taluni contratti collettivi nazionali del lavoro, invero, hanno inteso introdurre previsioni ad hoc al fine di contrastare tale fenomeno (si veda il CCNL Legno e Lapidei Artigianato oppure il CCNL Metalmeccanici Artigianato). Si ritiene, tuttavia, che tali previsioni, quand’anche applicabili allo specifico rapporto di lavoro, rischierebbero concretamente di risultare illegittime e come tali inapplicabili per contrasto con norme di legge, le quali, come noto, sono di rango superiore nella gerarchia delle fonti del diritto del lavoro.
Nel proseguo del presente articolo, si cercherà pertanto di fornire alcuni spunti in merito a come affrontare nel concreto tali condotte, evitando che al danno organizzativo e produttivo derivante dalla perdita improvvisa di una risorsa, si aggiunga per giunta la beffa di incorrere in conseguenze gravemente negative sotto il profilo economico.
Anche alla luce del più recente orientamento assunto dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 27331 del 26.09.2023 già commentata nella presente rivista, ciò che occorre sicuramente evitare è lasciare quiescente (ovvero in una fase di sospensione) il rapporto di lavoro del dipendente assentatosi strategicamente oppure, peggio, cessare lo stesso per dimissioni volontarie. In entrambi i casi, infatti, il rischio assai concreto per il datore di lavoro è quello di vedersi contestare a mesi di distanza di aver intimato un licenziamento in forma verbale o comunque per vie di fatto e sentirsi formulare richieste di carattere risarcitorio e reintegratorio per effetto della nullità del licenziamento in questione.
Per i datori di lavoro che, tuttavia, non intendono darla vinta al lavoratore ghoster e sono disposti ad assumersi comunque i predetti rischi, il suggerimento è quantomeno di non cessare il rapporto di lavoro, inviare una comunicazione raccomandata nella quale l’azienda si dichiara in attesa della prestazione lavorativa del dipendente, evitare di impedire l’accesso del lavoratore a strumenti aziendali in uso allo stesso (ad esempio, l’account di posta elettronica aziendale), elaborare mensilmente la busta paga del lavoratore indicando puntualmente la trattenuta dell’intera retribuzione per assenza ingiustificata e rendere disponibile la suddetta busta paga al dipendente mediante le modalità in uso all’azienda.
Per tutti coloro che, al contrario, intendono affrontare la situazione con maggiore pragmatismo, licenziando il dipendente assentatosi strategicamente dal lavoro, il suggerimento è di prestare estrema attenzione alla procedura disciplinare da porre in essere e ciò non solo avuto riguardo alla normativa di legge di cui all’art. 7 Legge 300 del 20.05.1970 bensì anche alle previsioni del CCNL applicato al rapporto di lavoro, sia sotto al profilo del numero di giorni di assenza ingiustificata necessari per intimare il licenziamento, sia avuto riguardo agli specifici termini prescritti per l’espletamento della procedura disciplinare. In tali casi, soprattutto per le aziende meno strutturate in ambito HR o con minore esperienza nella gestione di procedure disciplinari, il suggerimento è di avvalersi dell’assistenza di un professionista, quale ad esempio un Commercialista, un Consulente del Lavoro, un avvocato giuslavorista o l’associazione datoriale a cui l’azienda è eventualmente iscritta.
Sempre nel caso in cui l’azienda abbia inteso licenziare il lavoratore assente ingiustificato, si pone il tema dei costi a carico della datrice di lavoro e connessi al licenziamento, quali ad esempio l’importo dovuto all’INPS per il c.d. ticket NASpI, che per l’anno 2024 può ammontare fino a € 1.910,00 ed è sempre dovuto in caso di cessazione del rapporto per licenziamento, oppure anche l’onorario corrisposto dalla società al professionista che la stessa si è vista costretta a incaricare per gestire in modo corretto la procedura disciplinare necessaria per addivenire alla risoluzione del rapporto.
Ci si chiede, in particolare, se tali costi, che sono normalmente a carico del datore di lavoro in tutti i casi di licenziamento effettivamente determinato dalla volontà dello stesso, debbano essere a suo carico anche nel peculiare caso in cui il provvedimento espulsivo si sia reso necessario per effetto dell’abbandono del posto di lavoro ad opera del dipendente, il quale di fatto è dimissionario, ma in virtù della normativa vigente non può essere considerato tale.
Allo stesso modo, in tale chiave di lettura, ci si domanda altresì se al dipendente nei fatti dimissionario, ma in concreto licenziato, possa essere trattenuta altresì l’indennità sostitutiva del periodo di preavviso che lo stesso avrebbe dovuto offrire alla propria datrice di lavoro laddove lo stesso avesse inteso rassegnare correttamente le proprie dimissioni volontarie.
Se la legge in merito a tali aspetti nulla prevede, occorre constatare come anche la giurisprudenza sia stata fino ad oggi particolarmente avara di decisioni.
Allo stato, è dato rinvenire una sola decisione in merito a tali tematiche e in particolare la sentenza n. 106 resa in data 30.09.2020 dal Tribunale di Udine.
Tale sentenza, per quanto qui di interesse, si pronunciava in merito a una lite insorta tra un lavoratore licenziato per giusta causa a seguito di una assenza ingiustificata proseguita per alcune settimane e il proprio ex datore di lavoro, il quale, vistosi costretto a licenziare il proprio dipendente peraltro in un contesto organizzativo in cui gli sarebbe stato particolarmente necessario, si determinava a trattenere dalla retribuzione e dalle competenze di fine rapporto dello stesso quanto era stato tenuto a corrispondere a titolo di ticket NASpI, il compenso che aveva dovuto versare al proprio consulente del lavoro per gestire la procedura di licenziamento disciplinare nonché un corrispettivo di € 10.000,00 a titolo di risarcimento del danno derivatogli dal calo di fatturato e dal danno all’immagine con riferimento ai clienti che non aveva potuto assistere per effetto dell’abbandono del posto di lavoro del proprio dipendente e che si erano rivolti ad aziende concorrenti.
Al fine di pervenire a una decisione il Giudice incentrava il proprio ragionamento su uno specifico aspetto, affermando nella propria sentenza che: “Al fine di verificare la sussistenza del credito dell’opponente (ndr la Società) nei confronti del resistente (ndr il Lavoratore) per le spese sostenute dall’azienda e asseritamente imputabili al comportamento del lavoratore, occorre in primo luogo accertare – ed è circostanza sulla quale le avverse difese forniscono ricostruzioni totalmente opposte – la provenienza della volontà risolutiva del rapporto dall’una o dall’altra parte.”.
Muovendo da tale assunto il Giudice poi dava atto delle risultanze probatorie acquisite nel corso del giudizio, valorizzando in particolare i seguenti tre distinti elementi:
- La circostanza che la società avesse sollecitato a più riprese il lavoratore assente a riprendere servizio;
- La circostanza che il lavoratore nella propria lettera di giustificazioni avesse confermato la volontarietà della propria assenza affermando che: “la mia decisione di assentarmi dal lavoro a prescindere dalle motivazioni che la sorreggono, costituisce l’esercizio di una facoltà riconosciutami dall’ordinamento giuridico del lavoro”;
- La circostanza che i testimoni escussi nel corso del giudizio avessero confermato che il lavoratore:
- aveva confidato loro l’intenzione di cessare il rapporto lavorativo;
- aveva chiesto al datore di lavoro di essere licenziato al fine di beneficiare del trattamento NASpI;
- a fronte del rifiuto del datore di lavoro, aveva più o meno esplicitamente anticipato la decisione di assentarsi al fine di obbligare il proprio datore di lavoro a licenziarlo come da esso desiderato.
Era, pertanto, sulla base delle suddette risultanze probatorie che il Giudice attribuiva in concreto la volontà di recedere dal rapporto di lavoro in capo al lavoratore a prescindere dal dato fattuale relativo al licenziamento dello stesso.
Sulla base di tale presupposto, il Giudice si determinava poi a esaminare e a decidere in merito alle voci di danno lamentate dalla società e sopra menzionate.
Quanto all’ammontare versato dalla società all’INPS per il c.d. Ticket NASpI, la richiesta risarcitoria veniva ritenuta fondata proprio per la circostanza che la società si era vista costretta di fatto involontariamente a dare corso al recesso e a versare tale importo.
Quanto al compenso asseritamente dovuto al consulente del lavoro incaricato di gestire la procedura di licenziamento disciplinare, la richiesta risarcitoria veniva rigettata unicamente sul presupposto che il pagamento del suddetto compenso non era risultato provato in giudizio. In base all’iter logico del Giudice, pertanto, tale voce di danno sarebbe stata risarcibile, ove provata.
Quanto al preteso calo di fatturato e al danno d’immagine lamentati dalla società, tali richieste risarcitorie venivano rigettate, ma ciò sempre all’esito di una approfondita indagine in merito all’esistenza del danno e sulla base del presupposto che lo stesso non risultava in ultima analisi provato. Anche in tal caso, pertanto, in base all’iter logico del Giudice, tale voce di danno sarebbe stata risarcibile, ove provata.
Sulla scorta di tali valutazioni il Giudice dichiarava di fatto legittima unicamente la decisione delle società di trattenere dalle competenze di fine rapporto del lavoratore quanto pagato a titolo di ticket NASpI.
La sentenza così come sopra descritta e sommariamente riepilogata offre indubbiamente una serie di spunti di riflessione assai interessanti.
Il primo in assoluto è relativo alla circostanza che il Giudice del Tribunale di Udine abbia inteso andare oltre al dato formale relativo alla cessazione del rapporto per volontà e su iniziativa del datore di lavoro e, indagando approfonditamente in merito alle dinamiche che avevano portato al licenziamento, abbia ascritto invece tale stessa volontà al lavoratore.
Sotto il profilo puramente giuridico tale operazione appare poco ortodossa, essendo infatti il licenziamento inequivocabilmente una manifestazione della volontà datoriale (trattasi tecnicamente di atto unilaterale recettizio) da cui discende la perdita involontaria del posto di lavoro da parte del lavoratore, il quale a ben vedere matura il diritto alla percezione del trattamento della NASpI proprio perché involontariamente disoccupato.
Tale passaggio della sentenza avrebbe pertanto meritato una motivazione nettamente più articolata in merito ai principi giuridici su cui il Giudice ha fondato il proprio convincimento e non invece una mera constatazione del soggetto a cui in concreto è ascrivibile la volontà del recesso.
Se, pertanto, a parere di chi scrive, la sentenza appare moralmente giusta, non si può tacere come la stessa sembri piuttosto sommaria.
L’assenza di decisioni di merito e di legittimità avuto riguardo a tale tematica non permette di valutare quale potrebbe essere l’orientamento di altri Tribunali, né permette di valutare quale potrebbe essere il vaglio di tale orientamento nell’ambito di successivi gradi di giudizio. Premesso che un orientamento giurisprudenziale può ritenersi consolidato soprattutto se avvallato in modo costante dalla Suprema Corte di Cassazione, appare evidente che il principio sancito nella sentenza oggetto di commento non possa assurgere di certo al rango di orientamento giurisprudenziale consolidato, rimanendo di per se una pronuncia isolata.
Per certo, si tratta di un precedente giurisprudenziale a cui possono validamente appellarsi tutti i datori di lavoro che costretti a licenziare il lavoratore assentatosi strategicamente, intendano quantomeno evitare di sopportare il pregiudizio economico derivante dal licenziamento che sono stati loro malgrado costretti a intimare.
Un secondo spunto di riflessione deriva dalla meticolosa indagine operata dal Giudice al fine di accertare la volontà del lavoratore di lasciare il posto di lavoro.
Tale indagine sembra escludere che la mera assenza del lavoratore per un numero di giorni oltre il quale il CCNL applicato riconosce al datore di lavoro il diritto di operare il licenziamento per assenza ingiustificata possa automaticamente essere interpretata come una volontà del lavoratore di cessare il rapporto di lavoro di propria iniziativa.
Per quanto sopra, appare certamente consigliabile che il datore di lavoro non faccia affidamento su tale automatismo, attenda un numero di giorni superiore a quello strettamente necessario in base alle disposizioni del CCNL applicato e si precostituisca prove sia con riferimento agli inviti a riprendere servizio rivolti al lavoratore, sia, per quanto possibile, avuto riguardo alla volontà del lavoratore di cessare il rapporto.
Un terzo e ultimo spunto di riflessione deriva dalle valutazioni operate dal Giudice con riferimento alle voci di danno lamentate dal datore di lavoro.
Come prima evidenziato, due di tali domande risarcitorie sono state rigettate in base al principio secondo il quale il danneggiato deve fornire la prova certa del danno patito e tale prova non è stata ritenuta raggiunta all’esito del giudizio.
Se con riferimento al risarcimento del compenso riconosciuto al Consulente del lavoro per la gestione della procedura di licenziamento, la questione appare finanche banale (il datore di lavoro ha omesso di dare prova dell’avvenuto pagamento del compenso al consulente),
assai più interessante è la decisione relativa alla richiesta del risarcimento del danno economico e d’immagine patito dalla società per effetto dell’improvvisa assenza del lavoratore.
Come noto, l’art. 2118 Cod. Civ. riconosce a ciascuna delle parti del rapporto di lavoro di recedere anche senza giusta causa riconoscendo alla parte non recedente un congruo preavviso, la cui entità è determinata dai CCNL sia per il caso di licenziamento che di dimissioni.
Nel giudizio deciso dal Tribunale di Udine con la sentenza in commento, la società, forse al fine di giustificare l’entità delle trattenute che stava operando nei confronti del lavoratore, richiedeva il risarcimento di ben € 10.000 a titolo di ristoro dei danni che le erano derivati dall’asserita perdita di clienti che per effetto dell’improvvisa assenza del lavoratore non era a suo dire stato in grado di servire.
Forse, a parere di chi scrive, la stessa avrebbe potuto invece optare per la richiesta del pagamento dell’indennità sostitutiva del periodo di preavviso che il lavoratore avrebbe dovuto riconoscerle laddove avesse inteso dimettersi, dando correttamente seguito alla propria decisione di cessare volontariamente il rapporto di lavoro.
A prescindere dalla notevole complessità dell’onere probatorio che comportava la domanda risarcitoria formulata dalla società (il quale a ben vedere non è stato assolto in giudizio), si ritiene che la domanda relativa al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso sarebbe stata maggiormente coerente con la strategia adottata dalla società in giudizio, la quale si basava integralmente sulla volontarietà della cessazione del rapporto di lavoro ad opera del proprio dipendente.
Tali considerazioni portano a un ultimo spunto di riflessione conclusivo. Dinnanzi a quella che macroscopicamente appare essere una falla normativa che sta causando notevoli disagi agli imprenditori e alla luce di un’unica pronuncia a sostegno di quei datori di lavoro che loro malgrado si trovano a fronteggiare il fenomeno sopra descritto, un possibile accorgimento potrebbe essere quello di prevedere nelle lettere di assunzione una clausola penale ai sensi dell’art. 1382 Cod. Civ. in base alla quale, in caso di assenza ingiustificata dal posto di lavoro del dipendente per un determinato numero di giorni (superiore a quello previsto dal CCNL per intimare il licenziamento per giusta causa), il datore di lavoro nell’intimare il licenziamento avrà la facoltà di trattenere un importo a titolo di penale pari all’ammontare del Ticket NASpI e dell’indennità sostitutiva del preavviso che sarebbe stata dovuta dal lavoratore laddove si fosse dimesso.
*Avvocato in Milano