IL NUOVO REGIME SPECIALE PER IL TRASFERIMENTO DELLE ATTIVITÀ ECONOMICHE IN ITALIA
di Paolo Soro*
Una delle novità apportate con il D.lgs. 209/2023 di attuazione della riforma fiscale in materia di fiscalità internazionale, è la disciplina scritta nell’art. 6 (Trasferimento in Italia di attività economiche), che – di fatto – inaugura una sorta di inedito “Regime Impatriati” per imprese, società e associazioni professionali. La disposizione punta evidentemente a promuovere lo svolgimento nel territorio dello Stato italiano di attività economiche completando l’offerta concernente il lavoro dipendente, assimilato e autonomo. La nuova regolamentazione 2024 per gli impatriati vede espunta la previsione contenuta nel comma 1-bis, art. 16, D.lgs. 147/2015 e pertanto, il reddito di impresa risulta esserne completamente escluso.
La disposizione qui oggetto di esame è dedicata esclusivamente ai redditi derivanti da attività di impresa e dall’esercizio di arti e professioni esercitate in forma associata, sia da cittadini italiani che stranieri. In dettaglio, la platea dei soggetti interessati è costituita da:
- coloro che esercitano arti e professioni, ma solo in forma associata: i redditi di lavoro autonomo derivanti dall’esercizio (individuale) di arti e professioni – come noto – sono già destinatari dei benefici previsti dal Regime Impatriati;
- coloro che svolgono attività di impresa; ossia, producono redditi di impresa (sia in forma individuale che societaria), come previsto dall’art. 55 del TUIR;
- le attività di impresa esercitate da società appartenenti al medesimo gruppo;
- le grandi imprese, individuate ai sensi della Raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003.
A detto ultimo proposito giova ricordare che questa Raccomandazione riguarda la definizione delle microimprese, delle piccole imprese e delle medie imprese utilizzata nelle politiche comunitarie applicate all’interno dell’Unione europea e dello Spazio economico europeo: la categoria delle microimprese, delle piccole imprese e delle medie imprese (PMI) è costituita da imprese che occupano meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro; all’interno della categoria delle PMI si definisce, poi, piccola impresa un’impresa che occupa meno di 50 persone e realizza un fatturato annuo o un totale di bilancio annuo non superiori a 10 milioni di euro.
Vediamo ora di comprendere quali sono tutti i requisiti di accesso che devono possedere i soggetti sopra elencati. Primo requisito: le attività trasferite nel territorio italiano devono necessariamente essere previamente esercitate in un Paese estero non appartenente all’Unione europea o allo Spazio economico europeo.
Secondo requisito: è stabilito un periodo minimo, di tal guisa che non sono incluse tra le attività agevolabili quelle esercitate nel territorio dello Stato nei ventiquattro mesi antecedenti il loro trasferimento. A tal proposito la relazione illustrativa precisa che tale limitazione è volta a evitare che siano agevolate attività già in precedenza esercitate in Italia e trasferite all’estero per poi essere nuovamente ritrasferite nel territorio dello Stato al solo fine di beneficiare del vantaggio fiscale.
Trattasi di due parametri che il Legislatore ha voluto separare in differenti commi e che, pertanto, debbono a maggior ragione essere oggetto di una lettura disgiunta. Ovverossia:
- uno, è il divieto assoluto – dunque, senza alcun limite di tempo – di precedente svolgimento delle attività in uno Stato dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo;
- altro, è il limite che attiene al periodo di tempo minimo obbligatorio in cui le attività non devono essere state esercitate in precedenza in Italia.
Da notare che, riguardo alla prima limitazione, resta fuori dal perimetro di esclusione (dunque, è inclusa) la Svizzera, che quindi non è oggetto di divieto, seppure – di regola– la Confederazione elvetica è quasi sempre “collegata”, sia all’UE che ai Paesi SEE, da una serie di specifici accordi. Non solo: considerata la vicinanza geografica di confine e i continui movimenti in entrata e in uscita di aziende e lavoratori tra l’Italia e la Svizzera, sarebbe sembrato logico includere pure tale Paese. Peraltro, vista la novità della legge, non si è in grado di conoscere se la volontà del legislatore fosse esattamente questa, o se invece siamo semplicemente di fronte a un vulnus normativo.
Sul punto giova ricordare che l’Accordo sullo Spazio economico europeo (SEE) concerne gli Stati membri dell’UE e tre nazioni dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA); vale a dire: Islanda, Liechtenstein e Norvegia (la Svizzera non vi rientra). Orbene, detto accordo inserisce i predetti tre Paesi EFTA-SEE nel mercato interno dell’UE, garantendo la libera circolazione delle merci, dei servizi, delle persone e dei capitali, nonché politiche unificate in materia di: concorrenza, trasporti, energia, cooperazione economica e monetaria. Le stesse norme e condizioni si applicano a tutte le imprese all’interno del territorio SEE. Inoltre, la legislazione dell’UE relativa al mercato interno fa parte della legislazione dei Paesi SEE. Al di là degli impegni che rientrano nel mercato interno e nelle relative politiche, l’accordo SEE garantisce in particolare la partecipazione dei tre Stati menzionati a una serie di programmi e agenzie dell’UE nei seguenti settori: ricerca e sviluppo, istruzione, politica sociale, ambiente, tutela dei consumatori, turismo e cultura. Norvegia, Islanda e Liechtenstein non accedono formalmente al processo decisionale dell’UE; tuttavia, sono in grado di fornire contributi durante le fasi preparatorie: ad esempio, hanno il diritto di partecipare a gruppi di esperti e a comitati della Commissione, nonché di presentare osservazioni sulla futura legislazione da integrare nell’accordo SEE.
Nella sostanza, dunque, vi sono svariati elementi in comune con quanto prevedono di norma gli accordi tra la Svizzera e l’UE; anche se non esattamente tutti. D’altronde, esistono altri casi in cui gli accordi legano da una parte solo UE e Paesi SEE, e dall’altra solo Svizzera e UE: per esempio, la Direttiva 2014/67/UE in materia di distacco del personale (di cui al nostro D.lgs. 136/2016), è stata ratificata nell’Accordo UE/SEE, ma non dalla Svizzera. Possiamo quindi concludere che, salvo non intervengano differenti (forzate) interpretazioni dell’Agenzia delle entrate che vadano di fatto a modificare l’attuale testo del decreto, le attività che sono state precedentemente svolte in Svizzera – ferme restando le altre condizioni – rientrano tra quelle che possono accedere ai benefici (ovviamente, se trasferite in Italia).
Ritornando, invece, al secondo requisito, l’iniziale fattore che salta subito agli occhi relativamente al periodo minimo richiesto, è che il legislatore parla di “mesi” (per l’esattezza, ventiquattro) e non di “periodi d’imposta”. Dunque, indipendentemente dall’eventuale periodo d’imposta di residenza fiscale italiana, un’azienda che in ipotesi abbia cessato di lavorare in Italia (e si sia trasferita all’estero) il 31 marzo 2023, potrà accedere ai benefici se viene ritrasferita in Italia solo a decorrere dal 1° aprile 2025. Analogamente, se detta azienda è stata trasferita all’estero il 30 novembre 2023, avrà diritto alle agevolazioni (sempre ferme restando le altre condizioni stabilite dalla legge) solo se viene nuovamente ritrasferita in Italia a partire dal 1° dicembre 2025.
Ulteriore elemento che necessita di chiarimenti è il fatto che l’azienda sia rimasta fuori dall’Italia nei ventiquattro mesi precedenti, ma in realtà non abbia lavorato nel corso di tutto questo periodo. In tali evenienze, l’agevolazione per come è scritta la legge – dovrebbe comunque spettare, poiché la norma non prevede un periodo minimo di svolgimento all’estero dell’attività, ma solo un periodo minimo in cui detta attività non deve essere stata esercitata in Di fatto, l’attività estera potrebbe essere stata svolta per dieci anni o dieci mesi: agli effetti della disposizione è ininfluente. Per cui, ampliando il concetto, ne deriva che, in teoria, un nuovo imprenditore italiano che intenda aprire una sua attività, potrebbe agevolmente aprire detta azienda all’estero (in uno dei Paesi previsti) e poi trasferirla anche solo il mese dopo in Italia, accedendo così alle agevolazioni previste. Il “gioco” è abbastanza semplice e non occorre chissà quale mente geniale per architettarlo. Pertanto, davvero non si comprende la scarsa attenzione che un siffatto consesso di consulenti tecnici esperti abbia dimostrato in tale occasione.
Altra situazione sicuramente elusiva, è quella che si potrebbe verificare laddove avessimo a che fare con un “cambio attività”. Esempio:
- imprenditore italiano che svolge l’attività “X” in Italia;
- apre una differente attività “Y” all’estero;
- trasferisce in Italia detta seconda attività un mese dopo.
Restando al tenore letterale, l’operazione è possibile, poiché l’attività “X” svolta in Italia nei due anni precedenti non è quella a essere oggetto di trasferimento; né, tanto meno, l’imprenditore italiano dovrebbe (o legittimamente potrebbe) essere discriminato dalla legge rispetto a un imprenditore straniero. E tutto ciò, senza considerare quello che potrebbe ipotizzarsi in seno ai grandi Gruppi societari (normativa sul transfer pricing, permettendo). Insomma, appare indispensabile una circolare interpretativa a opera dell’Agenzia delle entrate, tenuto conto del risicato testo di legge, davvero ridotto al c.d. “minimo sindacale”.
Una delle questioni principali attiene, poi, a cosa si debba tecnicamente intendere per trasferimento in Italia dell’attività. Invero, appare ovvio che (riprendendo in un certo senso quanto appena detto) non possono essere oggetto di agevolazione quelle attività che si svolgono all’estero e che vengono chiuse nel Paese straniero per essere poi riaperte in Italia: la legge riguarda esclusivamente i redditi relativi alle attività economiche che si trasferiscono in Italia e non quelle attività che sono aperte “ex novo” nel nostro Stato. Anche su questo punto (come su altri), dunque, paiono indispensabili gli usuali chiarimenti operativi da parte dell’Agenzia delle entrate.
Sul punto, giova ricordare che di norma il trasferimento in Italia della residenza fiscale di un soggetto non residente, esercente un’impresa commerciale, è disciplinato nel nostro ordinamento dall’articolo 166-bis, TUIR (introdotto dall’articolo 12 del D.lgs. n. 147/2015 – per intenderci, lo stesso Decreto Internazionalizzazione che aveva previsto pure il Regime degli Impatriati all’articolo 16). La regolamentazione concerne nello specifico proprio il trattamento fiscale delle attività e delle passività appartenenti al soggetto non residente e trova applicazione in tutti i casi in cui il trasferimento avvenga in continuità giuridica sotto il profilo civilistico, posto che, nel caso in cui il trasferimento avvenga in regime di discontinuità giuridica, la valutazione di attività e passività deve seguire le regole ordinarie riguardanti le operazioni di costituzione di società (o trasferimento di beni privati all’impresa, nel caso di imprenditori individuali). La norma in discorso, come noto, prevede taluni adempimenti obbligatori correlati al trasferimento d’impresa: ad esempio, ai fini della determinazione dei redditi oggetto di agevolazione, il contribuente deve mantenere separate evidenze contabili, idonee a consentire il riscontro della corretta determinazione del reddito e del valore della produzione netta agevolabile.
In pratica, deve essere sempre possibile dimostrare contabilmente la quota parte di reddito prodotta in Italia a seguito del trasferimento (valida agli effetti della parziale non imponibilità delle imposte dirette e della base imponibile IRAP), rispetto a quella precedentemente maturata all’estero. Conseguentemente, il legislatore richiede di mantenere aggiornata una contabilità separata, nella quale siano correttamente – ed esclusivamente – riportati i risultati reddituali (e quelli afferenti alla base imponibile IRAP) che concernono la mera attività svolta in Italia a seguito del trasferimento effettuato. Sul punto, non pare ci sia granché da rilevare: di fatto, si tratta dello stesso modus operandi che di regola viene adottato in tutti i casi di trasformazioni, fusioni e altre simili operazioni straordinarie societarie, interne.
Appare, invece, opportuno precisare che, a seguito del trasferimento, l’attività deve essere svolta integralmente in Italia e, dunque, i benefici riguarderanno tutti i redditi prodotti solo nello svolgimento di tale “attività italiana”. Sembra, dunque, escluso che il contribuente possa svolgere (o continuare a svolgere), anche solo in parte, la sua attività all’estero (al di là di eventuali operazioni di import-export dall’Italia, ovviamente). Ciò si desume pure da quanto successivamente indicato nel comma 4 dell’articolo, dove si prevede espressamente che i beneficiari che ritrasferiscono fuori del territorio italiano, anche parzialmente, le attività oggetto di precedente trasferimento, perdono immediatamente le agevolazioni (fatto altresì salvo l’ulteriore recupero di quanto previamente usufruito).
Peraltro, anche in queste ipotesi, si pongono dubbi in merito all’applicazione della legge. Esempio: due imprenditori non collegati fra loro (quindi, fuori dalla normativa sul transfer pricing) che operano in un Paese straniero, si accordano commercialmente per cui uno dei due trasferisce la propria attività in Italia e, beneficiando delle agevolazioni fiscali, consegue un utile complessivo maggiore rispetto a quello che potenzialmente potrebbero conseguire due società indipendenti nel mercato, così operando di fatto in regime di concorrenza sleale.
Ciò che, in definitiva, si vuole mettere in evidenza è che la legge in esame necessita di svariate indispensabili precisazioni, poiché appare davvero semplice eluderla, considerata la penuria di indicazioni fornite nell’articolo.
Entrando nello specifico dei vantaggi fiscali stabiliti in questo nuovo regime speciale per le imprese che si trasferiscono in Italia, la legge stabilisce che:
“I redditi non concorrono a formare il reddito imponibile ai fini delle imposte sui redditi e il valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive per il 50%.”
È dunque esclusa a priori qualunque interpretazione che porti a ipotizzare effetti agevolativi anche ai fini contributivi, atteso che la volontà del legislatore è chiaramente espressa come intenzione di fornire un beneficio esclusivamente per le imposte sui redditi e per la base imponibile IRAP; null’altro. In caso contrario, l’estensore della norma avrebbe aggiunto (oltre che ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP) anche le parole: “…e ai fini contributivi”; o, quanto meno, si sarebbe limitato ascrivere soltanto: “I redditi non concorrono a formare il reddito imponibile”, senza ulteriormente specificare: “ai fini delle imposte sui redditi”; da cui, sarebbe stato lecito usare l’importo finale “detassato” del reddito imponibile per ogni conseguente disposizione di legge direttamente collegata al “reddito imponibile”. Da questo punto di vista, quindi, contrariamente ai problemi interpretativi connessi con il Regime Impatriati delle persone fisiche (sia ante, che post, 01/01/2024), che tutti noi abbiamo ben presenti, considerato il tenore letterale della norma, in questa occasione, il legislatore è stato assolutamente chiaro nello stabilire che l’agevolazione concerne il 50% dell’imponibile valido ai soli effetti delle imposte dirette e dell’IRAP (nessuna benefica conseguenza sulla parte contributiva previdenziale).
Il beneficio fiscale in argomento (non concorrenza reddituale del 50% agli effetti delle imposte sui redditi e della formazione della base imponibile dell’IRAP), è inoltre previsto per un periodo in più rispetto a quanto stabilito nel Regime Impatriati delle persone fisiche. In questa nuova normativa, infatti, il legislatore parla del periodo d’imposta in corso al momento in cui avviene il trasferimento e dei cinque periodi di imposta successivi (dunque, 5 + 1, al posto di 4 + 1). Ovviamente, il trasferimento deve sempre essere valutato con riguardo all’effettiva residenza fiscale acquisita in Italia dall’ente che si trasferisce.
Sul punto, occorrerà necessariamente riferirsi ai novellati articoli 2, 5 e 73 del TUIR. Appare peraltro ovvio che tali complesse argomentazioni non possono certo essere sviluppate in questa sede. Pertanto, possiamo solo rimandare il lettore al nostro precedente contributo sul n. 3/2024 di questa Rivista (per quanto attiene all’art. 2, TUIR); e ad altro approfondimento in uscita sul prossimo numero della Rivista (con riguardo agli artt. 5 e 73, TUIR).
Continuando il “parallelo” con i destinatari del Regime Impatriati, l’obbligo di permanenza in Italia per le aziende trasferite che hanno goduto dell’agevolazione anzidetta è, in questo caso, assai più ampio di quanto richiesto per gli impatriati. Invero, la disposizione qui prevede un tempo minimo obbligatorio pari a cinque periodi di imposta successivi alla scadenza del regime di agevolazione: dunque, in totale parliamo di dieci periodi di imposta, oltre a quello in cui è avvenuto il trasferimento in Italia. Tale obbligo diventa ancora più elevato (dieci periodi di imposta successivi alla scadenza del regime – rectius: quindici periodi di imposta, oltre a quello in cui è avvenuto il trasferimento in Italia), se trattasi di grandi imprese, individuate ai sensi della già ricordata Raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003.
In sostanza, il Legislatore concede cinque periodi di imposta agevolati, solo a fronte dell’impegno di continuare a operare in Italia almeno per altri cinque (o dieci) periodi di imposta senza avere alcuna agevolazione. E, a questo punto, sorge immediatamente la domanda: e se la mia azienda entra in crisi e devo chiudere prima che scada il predetto ulteriore quinquennio? Magari proprio perché, senza agevolazioni, in realtà non riesco ad andare avanti.
La norma non prende in considerazione la fattispecie (che, tra l’altro, è una di quelle che potrebbe facilmente prestarsi a situazioni elusive). Pertanto, salvo differenti istruzioni di prassi o di diritto, la predetta motivazione relativa al default imprenditoriale non giustifica la disapplicazione della disposizione in questione (fermo restando che, se tale default fosse effettivo e non puramente accampato, non si comprende come lo Stato potrebbe recuperare le agevolazioni precedentemente concesse).
Non solo, come prima anticipato, il beneficio è perso anche nelle fattispecie di (ri)trasferimento solo parziale dell’attività oggetto del precedente trasferimento. Ebbene, detta norma è senz’altro comprensibile in ottica anti-elusiva (tornando a quanto prima stigmatizzato), ma comporterà inevitabilmente scarso appeal per quei soggetti di grandi dimensioni che dovrebbero apportare – almeno in teoria – i maggiori vantaggi per le Casse dello Stato. Appare in effetti difficile immaginare una c.d. “grande impresa” che, nell’arco di quindici anni, non preveda di delocalizzare parte delle sue attività, aprendo ulteriori sedi in differenti Paesi stranieri. Sarà, allora, quanto mai opportuno l’intervento chiarificatore dell’Amministrazione finanziaria, onde comprendere meglio, in ottica prettamente operativa, i confini pratici da rispettare pure nell’applicazione di tale disposizione.
Ciò evidenziato, in tutti i casi nei quali i soggetti perdono i benefici stabiliti dal Regime all’interno del predetto periodo obbligatorio minimo, l’Erario recupera immediatamente, con gli interessi, tutte le imposte non pagate durante il regime agevolativo dal quale sono decaduti. La norma non fornisce ulteriori precisazioni, dunque, deve necessariamente ritenersi che – anche in questo caso – non è prevista alcuna sanzione; in ipotesi contraria, così come specificato per gli interessi, il legislatore avrebbe fatto lo stesso per le sanzioni, aggiungendo appunto le parole “con gli interessi… e le sanzioni”.
Infine, con espresso riferimento alla decorrenza, l’articolo 7 stabilisce che le disposizioni in questione (le quali, come già anticipato all’inizio, possono riguardare anche soggetti con esercizio non coincidente con l’anno solare), si applicano a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di approvazione del Decreto. Il provvedimento (D.lgs. 27 dicembre 2023, n. 209 – Attuazione della riforma fiscale in materia di fiscalità internazionale) è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 301 del 28/12/2023, ed è entrato in vigore il 29/12/2023. Ergo, la decorrenza del Regime speciale qui oggetto di analisi è il periodo di imposta 2024.
Peraltro, come prescrive l’ultimo comma dell’articolo di cui trattasi, l’efficacia delle disposizioni è subordinata, ai sensi dell’articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, all’autorizzazione della Commissione europea. Di conseguenza, la norma in realtà non è al momento operativa (cosa tra l’altro opportuna, in attesa di conoscere le prime linee guida emanate dall’Agenzia delle entrate). Ciò non toglie che, a ogni effetto di legge, una volta ricevuta la predetta autorizzazione della Commissione UE, potranno attingere ai benefici tutti coloro che si siano comunque trasferiti in Italia (nei modi sopra precisati) fin dal 1° gennaio 2024; ovviamente, laddove sussistano tutti gli altri requisiti; nonché, alle condizioni richieste dalla legge.
Come precisato in sede di relazione tecnica, la proposta, rispetto alla situazione vigente, attraendo attività in Italia, non comporta effetti negativi di gettito in quanto: “gli effetti positivi relativi alle attività che, a legislazione vigente, non sarebbero rientrate in Italia, più che compenseranno i trascurabili effetti negativi relativi alle attività che sarebbero state trasferite anche in assenza della misura”. Ciò è senz’altro vero e auspicabile; ma appare, quindi, indispensabile pubblicare al più presto i necessari documenti di prassi, al fine di precisare la portata delle varie disposizioni in precedenza evidenziate, e, in tal modo, scongiurare numerose operazioni elusive, le quali, al momento, sembrerebbero fin troppo facili da mettere in atto.
*ODCEC Roma