QUESTA CONDOTTA” NON S’HA DA FARE, NE’ ORA NE’ MAI!”: SUL VALORE DEI CODICI DI CONDOTTA AZIENDALI

di Andrea Federici*

Condotta contraria al codice di condotta aziendale – disciplinare – necessaria affissione nei luoghi di lavoro – riproduzioni informatiche di messaggistica whatsapp – riproduzioni meccaniche ai sensi dell’art. 2712 c.c. – idoneità a rappresentare i fatti salvo disconoscimento – legittimità del licenziamento di natura disciplinare – l’obbligo di adottare un contegno conforme alle disposizioni organizzative e protocolli imposti dal datore di lavoro a protezione degli interessi aziendali – diligenza richiesta dall’art. 2105 c.c. – proporzionalità – sussistenza.La sentenza n. 2589 del 31.01.2023 della II Sezione Lavoro del Tribunale di Roma offre eterogenei spunti di riflessione e, in particolare, consente di focalizzare l’attenzione sul valore di quelle norme che, ancorché prive di efficacia vincolante diretta, sono rivolte a regolamentare, tipizzandole, le condotte di chi interagisce a vario titolo con l’organizzazione, a prescindere dalla qualificazione dell’illecito riconducibile alla condotta vietata.

Nel caso citato Il Tribunale è stato chiamato a pronunciarsi in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare comminato a un dipendente, in conseguenza della violazione delle regole di condotta aziendali.

Più in particolare, veniva contestato al lavoratore di avere celato la relazione sentimentale con una collega del gruppo di lavoro in cui era inserito, nonostante l’espresso divieto di conflitto di interesse contenuto nel codice disciplinare, e di avere esercitato sulla collega uno stato di pressione psicologica per condurla alle dimissioni una volta scopertone lo stato di gravidanza verosimilmente attribuibile allo stesso, con il fine di non ostacolare la propria progressione di carriera.

Nella valutazione della controversia il Tribunale si sofferma sull’indagine di tre punti fondamentali:

α) affissione del codice disciplinare ex art. 7, comma 1, L. 300/1970. Il Tribunale del lavoro, per verificare il legittimo esercizio del potere disciplinare, ha preliminarmente accertato l’effettiva affissione del codice disciplinare da parte del datore di lavoro, circostanza confermata all’esito dell’esame testimoniale. Ed invero, come pacificamente acquisito dalla giurisprudenza, l’affissione costituisce un adempimento insostituibile che rappresenta “una forma di pubblicità condizionante il legittimo esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro”, adempimento che deve essere provato dalla parte datoriale.

β) utilizzabilità processuale delle conversazioni intrattenute a mezzo whatsapp. A tal proposito, il Tribunale respinge la censura in ordine alla violazione del principio di segretezza della corrispondenza privata, ribadendo così il precedente orientamento di legittimità a tenore del quale il diritto di difesa, ove esercitato nei limiti e per il tempo necessario al perseguimento di detta finalità, prevale sulle esigenze di riservatezza. Le conversazioni di messaggistica “whatsapp” (acquisite secondo il procedimento informatico di clonazione del dispositivo mediante applicativo “Ufed”) sono riproduzioni meccaniche ai sensi dell’art. 2721 c.c. e, per questo, idonee a provare i fatti ivi rappresentati, fatta salva la dimostrazione espressa in modo “chiaro, circostanziato ed esplicito” che non via sia corrispondenza tra quanto trascritto e realtà fattuale. Su tali premesse il Tribunale non ha ritenuto idonee al disconoscimento le contestazioni del dipendente, ritenute generiche in quanto prive della rigida allegazione richiesta dalla giurisprudenza di legittimità.

γ) legittimità e proporzionalità del licenziamento di natura disciplinare per violazione del codice di condotta. Conclusivamente, in ordine alla duplice valutazione dell’effettiva sussistenza del fatto addebitato al lavoratore e della proporzionalità tra condotta e sanzione disciplinare applicata, il Tribunale si sofferma sulla disamina del codice di comportamento e del Codice Etico adottati dalla società. In particolare, il codice di comportamento dell’ente, quanto ai “rapporti di parentela e relazioni personali”, attenziona i destinatari sull’importanza di evitare che tali rapporti vengano ad alterare i normali equilibri lavorativi, determinando ipotesi di conflitto di interesse o situazioni di favoritismo o nepotismo reali o anche solo percepiti.

In virtù di tali principi l’azienda, pur riconoscendo come possibile e legittima l’esistenza di rapporti personali o di parentale, ha posto un obbligo di informarne il datore di lavoro, ponendo uno specifico divieto di coinvolgimento nei reciproci processi decisionali quali, ad esempio, quelli afferenti all’avanzamento di carriera e di assegnazione ai medesimi incarichi, unità e clienti.

Inoltre, il Codice Etico dell’ente dichiara che i destinatari sono tenuti ad evitare le situazioni nelle quali possano manifestarsi conflitti di interesse o che possano interferire con la propria capacità di assumere, in modo imparziale, decisioni nel miglior interesse della società e nel rispetto del Codice Etico e del Modello Organizzativo ex D.Lgs. 231/2001.

Tali divieti sono rivolti a garantire l’imparzialità e la trasparenza delle scelte lavorative, nonché a garantire che le decisioni siano sempre rivolte a garantire gli interessi dell’organizzazione.

Il Tribunale ha quindi ritenuto che la lesione del codice di comportamento e del codice etico, imposti dal datore di lavoro a protezione degli interessi aziendali, rilevino ai fini dell’apprezzamento della diligenza richiesta nell’espletamento della prestazione lavorativa ai sensi dell’art. 2105 c.c. e, nel caso di specie, abbiano assunto il carattere della gravità tale da pregiudicare il vincolo fiduciario datoriale. Nel merito il dipendente non solo ha omesso di comunicare l’esistenza di un conflitto di interesse, ma, anteponendo il proprio interesse personale a quello aziendale, ha esercitato sulla collega pressione affinché tacesse lo stato di gravidanza di cui era presumibilmente responsabile inducendola ad abbandonare il posto di lavoro, così esponendo l’organizzazione alla responsabilità conseguente alla violazione dei doveri che impongono al datore di lavoro un obbligo di vigilanza sulla sicurezza e sulla salute psico-fisica dei propri dipendenti (art. 2087 c.c.).

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La nota a sentenza vuole essere occasione per apprezzare l’impatto pratico nel diritto vivente dei codici di condotta adottati dalle organizzazioni.

Nel caso in esame, ad esempio, la violazione del canone di condotta dell’ente, appare aver supportato il giudicante, nella declinazione del principio codicistico della diligenza richiesta nell’espletamento della prestazione lavorativa di cui all’art. 2105 c.c., ma più in generale, i codici di condotta così come l’adozione di specifiche procedure gestionali (ad esempio in materia di personale, contabilità e bilancio, salute e sicurezza, ambiente, cassa ecc.…) costituiscono patrimonio e valore aziendale, in quanto rafforzano la percezione di effettivo governo dell’ente e la prevenzione di illeciti e, financo la commissione di reati che, laddove presupposto, possono tradursi nella responsabilità amministrativa dell’ente di cui al D.Lgs 231/2001.

Ogni organizzazione, in funzione dell’effettiva operatività e specificità, dovrebbe attribuire rilevanza, codificandoli, a valori e protocolli di gestione dei processi ritenuti fondanti per la stessa organizzazione e, parallelamente, istituire divieti con il fine di prevenire comportamenti illeciti o anche solo disfunzionali di coloro che operano per l’ente, sia verso l’interno sia verso l’esterno.

*Avvocato in Bologna

 

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