SUSSISTENZA E PROVA DELLA SUBORDINAZIONE: LA CASSAZIONE INTERVIENE

di Stefano Ferri*

Uno dei temi che si ripropongono quotidianamente nei nostri studi professionali è quello relativo alla subordinazione ed agli elementi che la caratterizzano, nonché degli aspetti probatori correlati.

A tal proposito una recentissima sentenza (7 ottobre 2024) della sezione Lavoro della suprema Corte di Cassazione, numero 26138, ha fornito elementi a mio parere utili per la difesa di parte datoriale a fronte di pretese non di rado prive di fondamento.

La fattispecie prende le mosse da una sentenza della Corte d’Appello di Roma, che ha riformato la sentenza di primo grado accertando l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo determinato e, di conseguenza, ha condannato al pagamento a favore del lavoratore delle differenze retributive e del trattamento di fine rapporto, oltre accessori di legge.

Segue ricorso del datore alla suprema Corte che cassa la sentenza impugnata con varie considerazioni di indubbio interesse. In primo luogo vengono richiamati i principi generali: costituisce requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato il vincolo di soggezione del prestatore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che si concretizza in ordini specifici e in un’assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative; tale requisito deve essere necessariamente apprezzato dal giudice di merito.

Di conseguenza, elemento discretivo tra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo è il concreto atteggiarsi del potere direttivo del datore di lavoro, che non si deve limitare a direttive di carattere generale, compatibili anche con il rapporto libero professionale, ma deve esplicarsi in “ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa, stabilmente inserita nell’organizzazione aziendale”; viene quindi data continuità alla linea giurisprudenziale della Cassazione risalente, tra le numerose altre, alla ben nota sentenza n. 29646 del 16 novembre 2018.

Interessante e da tenere ben presente, per diversa fattispecie, è il chiarimento che “in caso di prestazioni di natura intellettuale o professionale, l’assoggettamento del lavoratore a tali direttive si presenta in forma attenuata, in quanto non agevolmente apprezzabile a causa dell’atteggiarsi del rapporto; sicché, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell’osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale”.

Tornando al caso in esame, i giudici della suprema Corte rilevano come la prova della subordinazione sia completamente mancata, sia in virtù delle dichiarazioni confessorie a sé sfavorevoli rese nell’interrogatorio formale del ricorrente e sia perché nessuno dei testi escussi ha saputo riferire quale fosse il ruolo del lavoratore e neppure cosa in concreto facesse; in un tale scenario non si può assolutamente parlare di coordinamento dell’attività lavorativa con l’assetto organizzativo aziendale e del relativo suo inserimento in esso. E in una fattispecie di questo tipo non è decisiva la provata presenza continuativa, in particolare perché non è emerso alcun esercizio di potere direttivo sul lavoratore.

Sulla base di tali affermazioni, la Cassazione conclude che la Corte d’Appello ha affermato la sottoposizione del lavoratore al potere direttivo datoriale senza alcuna prova, con conseguente errore di diritto con riferimento all’articolo 2697 del Codice Civile, censurabile dalla suprema Corte, in quanto il giudice ha attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata.

In sintesi, il giudice di merito ha ritenuto la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, non avendo parte datoriale assolto l’onere di gratuità della prestazione lavorativa stante la presunzione di onerosità, “posto che ogni attività oggettivamente configurabile come di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso, salva la prova – da fornirsi da colui che contesti l’onerosità – che la stessa sia caratterizzata da gratuità (Cass. 3 dicembre 1986, n. 7158; Cass. 28 marzo 2017, n. 7925; Cass. 28 marzo 2018, n. 7703) – ma rilevante soltanto quando una tale presunzione sia radicabile su una prestazione lavorativa di natura subordinata, qui indimostrata”.

Viene quindi ribadita una linea ormai consolidata della Corte di Cassazione: l’elemento essenziale del rapporto di lavoro è costituito dall’eterodirezione, quindi dalla soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare datoriale, con correlati ordini specifici ed attività di vigilanza e controllo. Il giudice di merito non può sottrarsi all’apprezzamento di tali aspetti, anche in considerazione della tipologia di rapporto e tenuto conto, come indicato, che per prestazioni di natura intellettuale o professionale, l’assoggettamento del lavoratore a tali direttive si presenta in forma attenuata, quindi occorre fare riferimento ai criteri complementari e sussidiari indicati in sentenza (collaborazione, continuità delle prestazioni, osservanza di un orario determinato, versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, coordinamento dell’attività lavorativa assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, assenza in capo al lavoratore di struttura imprenditoriale).

*ODCEC Reggio Emilia

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