Dimissioni durante il periodo di Cassa integrazione e obbligo di preavviso

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di Andrea Sella*

L’obbligo di comunicare il recesso dal rapporto di lavoro con un preavviso il cui termine è dettato dai Ccnl, dagli usi o dall’equità è un obbligo codicistico rinvenibile nell’art. 2118 c.c.

Occorre brevemente inquadrare il c.d. preavviso da un punto di vista sistematico.Il  contratto  di  lavoro  è  una  eccezione  alla  regola prevista dall’art. 1372 c.1 c.c. da cui deriva la necessità di risolvere i contratti di durata a tempo indeterminato per mutuo consenso essendo il recesso dal rapporto di  lavoro,  sia  esso  licenziamento  o  dimissioni,  un tipico atto unilaterale che può essere anche acausale, non tanto nel senso di negozio astratto (cfr. Ardau G. La  risoluzione  per  inadempimento  del  contratto  di lavoro, Milano, 1954, pag. 47), quanto piuttosto come atto che non necessita di motivazione (si pensi alle ipotesi  di  licenziamento  ad  nutum  o  di  dimissioni che possono avere le motivazioni più varie che non necessariamente debbono essere espresse o portate a conoscenza del datore di lavoro (cfr. Natoli U., Sui limiti legali e convenzionali della facoltà di recesso ad nutum dell’imprenditore, Riv. Giur. Lav. I, 1954, 285).

Si nota poi un trattamento asimmetrico delle dimissioni rispetto al licenziamento, sul logico presupposto di una differente necessità di tutela delle posizioni del lavoratore rispetto al datore di lavoro ed alle differenti tutele anche costituzionali degli stessi, oltre alle ovvie implicazioni sociali che un licenziamento comporta rispetto alle dimissioni.

Sulla scorta di tale approccio non vi sono particolari limiti alle dimissioni del lavoratore.

Fatti salvi eventuali accordi di durata minima del rapporto o di deroga al periodo di preavviso (la cui validità e ammissibilità è oggetto di vivace dibattito anche giurisprudenziale, non oggetto di  approfondimento  in  questa sede), l’unico vero obbligo è quello di dare il preavviso fatto salvo, in caso contrario, il pagamento di un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso, come specifica appunto l’art. 2118 c.2 c.c.

La principale deroga a tale obbligo è chiaramente la giusta causa, ovvero il fatto talmente grave che giustifica l’immediata risoluzione del rapporto di lavoro, senza necessità di preavviso.

Ma nella normalità dei casi l’obbligo di preavviso è necessario e  previsto dalla citata  norma e poi disciplinato in generale dai vari contratti collettivi seguendo due direttrici di massima: l’anzianità ed il livello; pertanto maggiore è l’anzianità e più alto il livello tanto maggiore, entro i termini definiti dai vari contratti, sarà il periodo di preavviso dovuto.

Fatta questa doverosa premessa sistematica, risulta evidente che la ratio sottesa al c.d. preavviso è quella di tutelare la parte che subisce il recesso nella ricerca di un sostituto. Altrettanto chiara è, alla luce della stringente normativa sui licenziamenti, la logica che vi sta alla base: in un contesto sociale in cui la disoccupazione è un problema endemico, la libertà maggiore va posta a favore del lavoratore, sul presupposto di una più semplice possibilità, per l’azienda, di trovare un sostituto rispetto alla possibilità da parte del lavoratore di trovare una nuova occupazione in caso di suo licenziamento.

E sempre sulla base di tale logica anche i contratti collettivi, generalmente, prevedono una durata diversificata del termine di preavviso, distinguendo le ipotesi di licenziamento rispetto alle dimissioni.

Ulteriore corollario (cfr. Il lavoro nella giurisprudenza,n. 1 gennaio 2016, p. 48 Nota a sentenza di Stefano Slataper) è dato dal fatto che in realtà il preavviso ha una natura indennitaria sui generis. Infatti, al di là della giurisprudenza più risalente che ne riconosce una natura risarcitoria del danno (Cass., Sez. lav., 21 gennaio 1982, n. 403, in Riv. it. dir. lav., 1982, II, 758, con nota di Papaleoni, Cass., Sez. lav., 12 ottobre 1989, n. 4081, in Foro it., 1990, I, 916, Cass., Sez. lav., 28 maggio 1992, n. 6406, in Foro it., 1993, I, 1957) e di isolate sentenze che ne hanno riconosciuto la natura retributiva (Cass., Sez. lav., 7 giugno 1990, n. 5425, in Riv. giur. lav., 1992, II, 286), costantemente la giurisprudenza ha negato che l’indennità di mancato  preavviso  debba  in  qualche modo  essere  allegata  o  provata  nella  sua  concreta esistenza (così, Cass., Sez. lav., 12 agosto 1994, n. 7417, in Not. giur. lav., 1994, 766, Cass., Sez. civ., 2 settembre 2014, n. 18522, in D&G, 3.9.14, Cass., Sez. lav., 21 gennaio 2014,  n.  1148,  in  Mass.  Giur.  Civ.,  2014).  Il  supposto danno  nella  sua  esistenza  è  in  pratica  presunto  e nel suo ammontare è predeterminato, tanto che la giurisprudenza ha riconosciuto il diritto all’indennità di mancato preavviso anche in ipotesi di immediata rioccupazione come nel caso di cambio appalto (cfr. ex multis, Corte di Cassazione sentenza N. 24430 del 1 dicembre 2015).

Venendo al caso più specifico della Cassa integrazione guadagni occorre interrogarsi su quali riflessi la stessa abbia sul rapporto di lavoro e quindi quali implicazioni comporti sull’eventuale termine di preavviso delle dimissioni.

Di certo sia la Cassa integrazione guadagni ordinaria che straordinaria sono principalmente degli ammortizzatori sociali, che prevedono una indennità sostitutiva dello stipendio entro i tetti previsti dalla normativa. È altresì noto che la prima si applica ai dipendenti di imprese industriali, che siano sospesi dal lavoro o effettuino prestazioni lavorative a orario ridotto a seguito di specifiche situazioni aziendali di sospensione o riduzione del lavoro mentre la seconda trova applicazione nei casi di riduzioni o sospensioni di personale determinate da crisi, ristrutturazioni, riorganizzazioni e riconversioni aziendali o nei casi di procedure concorsuali.

La Cassa integrazione guadagni è stata posta al centro della normativa conseguente all’emergenza COVID-19 e ne sono stati ampliati termini e modalità di impiego. Per quanto qui interessa, dovrebbe essere pacifico che i casi di sola riduzione oraria, nelle varie declinazioni, non influisca sui termini di preavviso. L’unica ipotesi che verrà presa in considerazione è pertanto la c.d. cassa a “zero ore” o comunque la sospensione integrale della prestazione lavorativa.

Altre ipotesi di sospensione dal lavoro sono rinvenibili nella malattia, nell’infortunio sul lavoro, nella carcerazione preventiva, nelle aspettative di vario genere previste dalla contrattazione o dalla legge. Ma sono tutte ipotesi riconducibili alla sfera diretta o indiretta del lavoratore.

La Cassa integrazione invece riguarda la sfera del datore di lavoro essendo, se non a lui imputabile, quantomeno al medesimo riconducibile.

In questo caso, si rinnova il regime asimmetrico del ragionamento seguito in particolare dalla giurisprudenza, tra la posizione del lavoratore e quella del datore di lavoro di cui si è accennato.

Infatti, una delle più note e citate sentenze è la Sentenza della Cass. Civ. Sez. Lavoro del 12/08/1994 n. 7417 che in un caso di trasferimento d’azienda ha stabilito che il licenziamento del lavoratore che pur abbia continuato a lavorare senza interruzioni presso il nuovo datore di lavoro, non può configurare una giusta causa di licenziamento (da parte del cedente) configurando invece un motivo oggettivo di recesso, il che comporta il diritto al preavviso (cfr. più recentemente Cass. Civ. Sez. Lavoro del 5/12/2018 n. 31500).

Per quanto riguarda invece le ipotesi di Cassa integrazione, la giurisprudenza, seppure non abbondante, ha avuto un approccio diverso.

In tema di Cassa integrazione straordinaria la giurisprudenza ha avuto modo di pronunciarsi con Sentenza della Cass. Civ. Sez. Lavoro del 28/05/1992 n. 6406 nell’ambito di un contenzioso tra l’Inps ed alcuni lavoratori che lamentavano l’illegittimo recupero da parte dell’ente delle somme ricevute a titolo di CIGS in concomitanza del periodo di preavviso. La Cassazione si è discostata dalla precedente difforme giurisprudenza (Cfr. Sentt. Cass. Sez. Lav. 678/1987 e n. 3556/1989) sul presupposto  che  il  preavviso  ha  natura  risarcitoria dell’illecito recesso anticipato mentre la retribuzione è  “un’attribuzione  patrimoniale  proporzionata  alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36 Cost.)”. Data la differenza di causa dell’attribuzione patrimoniale, in motivazione  specifica:  “L’integrazione  salariale  c.i.g. sostituisce la retribuzione in caso di sospensione del lavoro con intervento della Cassa, ma non l’indennità sostitutiva del mancato preavviso, quando dovuta dal datore di lavoro…” e si noti l’inciso “quando dovuta dal datore di lavoro” che, si ritiene, non sia stato messo a caso.

Infatti, più recentemente, su tale solco è intervenuto il Tribunale di Napoli con Sentenza n. 5568/2015 del 15/06/2015 in un caso di dimissioni di un lavoratore per motivi di salute con richiesta di esonero dal preavviso durante un periodo di C.I.G.S.

Il Tribunale, al di là della disquisizione sull’efficacia reale o obbligatoria dell’obbligo del preavviso, capovolge la prospettiva: rileva che non ci sono norme che esonerino il lavoratore dall’obbligo di preavviso anche in caso di C.I.G.S., ma, da un lato, evidenzia come il Ccnl applicabile al caso specifico preveda che l’indennità sostitutiva spetta “in ogni caso al lavoratore che all’atto del licenziamento si trovi in sospensione” e dall’altro lato, richiama l’art. 4 comma 9 della legge 223/91 da cui discende l’obbligo per il datore di lavoro di corrispondere l’indennità di mancato preavviso in caso di licenziamento di lavoratore collocato in mobilità. Da tali premesse discende la ratio della decisione, sulla scorta del principio “ubi lex voluit dixit”. In pratica, non essendoci una norma che impone al lavoratore la corresponsione dell’indennità di mancato preavviso, a differenza di quanto previsto per il datore di lavoro, e comunque con un ragionamento “a contrariis” rispetto alla normativa contrattuale e speciale, afferma come il lavoratore non sia tenuto al preavviso né alla relativa indennità nel caso in cui il preavviso non venga fornito, né il datore è legittimato a trattenerla in tale ipotesi, con buona pace del principio generale di cui all’art. 2118 c.c.

Un precedente più risalente (Cass. Civ. Sez. Lav. 9 aprile 1993 n. 4306) ha invece affermato che il lavoratore in

C.I.G.S. è regolarmente tenuto al preavviso rimanendo il rapporto di lavoro sospeso “di giorno in giorno” ed essendo privo di carattere di certezza il termine (seppure ai sensi dell’allora disciplina ex art. 5 legge 20 maggio 1975, n. 164) di prevedibile durata della sospensione. In tali ipotesi il datore di lavoro, afferma la Cassazione, ha interesse ad essere preavvisato dell’interruzione del rapporto di lavoro da parte di un lavoratore, specie se con mansioni di una certa importanza e delicatezza.

Sempre in tema di C.I.G.S., Pretura Firenze, con Sentenza dell’11/03/1988 ha avuto modo di statuire che: “Il lavoratore sospeso, con intervento della cig straordinaria, qualora l’impresa non gli abbia ancora comunicato la data di un’eventuale riammissione al lavoro, può recedere dal contratto senza dare il preavviso previsto dalla disciplina collettiva” (in Toscana Lavoro Giur., 1988, Riv. It. Dir. Lav., 1988) sull’evidente presupposto che il datore di lavoro in tale situazione non abbia interesse alla prestazione lavorativa e pertanto non sia in qualche modo penalizzato dalle dimissioni del lavoratore.

Occorre quindi valutare la più attuale situazione conseguente alla CIG c.d. “Covid”. L’estensione dei soggetti beneficiari e dei periodi di fruizione è legata a doppio filo con la situazione emergenziale e pandemica e fa da contraltare ai limiti introdotti alla possibilità di licenziare in capo ai datori di lavoro, quantomeno per ragioni oggettive legate alla situazione economica aziendale.

In tale ottica la prospettiva potrebbe anche portare ad un ragionamento diverso.

La pandemia è un fatto esterno alla sfera direttamente riconducibile al datore di lavoro, ma che ha ricadute dirette sulla sua attività. Si pensi alle chiusure ex lege delle attività produttive nei vari settori. Qualcosa di analogo si può ipotizzare in regime di conflitto bellico o comunque di chiusure forzate per motivi di sicurezza nazionale.

Nell’ambito della contrattualistica legata all’emergenza COVID, nel corso del 2020, vi sono stati molti contributi dottrinari e giurisprudenziali che hanno ricondotto l’eventuale inadempimento ad una impossibilità sopravvenuta ex art. 1464 c.c. o ai sensi dell’art. 1256 c.2 c.c.

A seguito dell’emergenza determinata dalla diffusione dell’infezione da COVID-19, il Governo ha adottato una serie di misure contenute nel d.l. 23.2.2020, n. 6 e soprattutto il d.l. 17.3.2020, n. 18, c.d. Cura Italia (convertito con modificazioni dalla legge 24.4.2020, n. 27) che all’art. 3 ha aggiunto il comma 6 bis che prevede espressamente che “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini  dell’esclusione,  ai  sensi  e  per  gli effetti  degli  artt.  1218  e  1223,  della  responsabilità del  debitore,  anche  relativamente  all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o  omessi  adempimenti”.  Tale  disposizione,  che  si applica  solo  nel  caso  in  cui  il  ritardato  o  mancato adempimento  sia  conseguenza  del  rispetto  delle misure   di   contenimento   adottate   dal   Governo, rappresenterebbe,  secondo  i  primi  commenti  alla normativa  (Bergamaschi,  L’esecuzione  dei  contratti ai  tempi  del  coronavirus,  in  Quot.  Giur.,  IV,  2020; Di  Marco,  L’esonero  da  responsabilità  contrattuale prevista  dall’art.  91,  comma  1,  del  Cura  Italia,  in Quot.  Giur.,  10.4.2020),  una  particolare  tipologia  di causa di forza maggiore, riecheggiando la figura del factum principis, consistente nell’adozione da parte dell’Autorità di un provvedimento che, impedendo o rendendo eccessivamente gravosa la prestazione oggetto del contratto, esclude la responsabilità per l’inadempimento del debitore, sempre che quest’ultimo abbia agito rispettando i principi di buona fede e diligenza di cui agli artt. 1175 e 1176. Per altri versi è stata richiamato l’art. 1464 c.2 c.c. con riguardo all’impossibilità sopravvenuta temporanea.

Tali principi potrebbero essere applicabili anche in campo lavoristico (cfr. Trattato di Diritto Privato a cura di Giovanni Iudica e Paolo Zatti, Oronzo Mazzotta Diritto Del Lavoro, Quinta edizione, Giuffré Editore, pagg. 676 e segg.). In tale ottica l’Autore riconduce le ipotesi di impossibilità sopravvenuta a quella parziale prevista dall’art. 1464 c.c., o temporanea prevista dall’art. 1256 c.2, riconducendo il primo caso ad un’ipotesi di recesso e nel secondo caso ad una risoluzione ipso iure, sul presupposto che non sia rinvenibile un apprezzabile interesse del creditore all’adempimento della prestazione. Seppure in contrasto con la giurisprudenza maggioritaria, riconduce tali ipotesi alla risoluzione per giusta causa ex art. 2119 c.c., con conseguente esonero dal preavviso.

Mutuando il ragionamento dal punto di vista del lavoratore, in qualità di creditore della prestazione retributiva, ha diritto alla retribuzione a fronte della propria prestazione lavorativa. A fronte dell’impossibilità di renderla per fatti riconducibili al datore di lavoro, seppure a lui non imputabili (trattandosi di imposizioni dell’Autorità statale), e di ottenere una retribuzione proporzionata alla prestazione lavorativa, potrebbe essere applicabile la citata impostazione dottrinale.

Il datore di lavoro utilizza la CIG anche se, probabilmente, nella maggior parte dei casi, avrebbe preferito il licenziamento. In concreto, può capitare e non è stato infrequente, almeno negli ultimi periodi, che  il lavoratore in CIG nelle  more trovi un’altra occupazione, con ciò rendendo meno gravosa per entrambi la prosecuzione del rapporto. Infatti, il lavoratore percepirebbe una retribuzione piena ed il datore di lavoro libererebbe una risorsa non necessaria.

In  tale  ottica  potrebbe  anche  sovvenire  l’indirizzo giurisprudenziale del concetto di causa in concreto perseguito proprio al fine di fare emergere interessi ultimi e reali delle parti (cfr. Sulla nozione di causa in concreto del contratto v. tra i tanti Roppo, Causa concreta:   una   storia   di   successo?   Dialogo   (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. dir. civ., 2013, I, 978; G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1963, 370; Id., Motivi, presupposizione e l’idea di meritevolezza, in Europa dir. priv., 2009, 334; Id., Il problema della causa del negozio giuridico, in Rosario Nicolò, a cura di Lipari, Napoli, 2011, 165 e in Studi in onore di Davide Messinetti, a cura di Ruscello, II, Napoli, 2009, 55; Alpa, Causa e tipo, in Vita not., 1997, 3; Id., L’uso giurisprudenziale della causa del contratto, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 147; D’Auria, Causa in concreto, operazione economica e procedimento ermeneutico contrattuale:   spunti   di   riflessione,   in   Il   Corriere Giuridico,  2015,  1383;  Rizzuti,  Emergenza  sanitaria, obbligo  di  rinegoziazione  e  buona  fede  integrativa, in Il Corriere Giuridico, 2021, p. 805 nota a sentenza di Carolina Magli).

In conclusione, l’art. 2118 c.c. è apparentemente una norma applicabile nella generalità dei casi, indipendentemente dalla prospettiva da cui ci si pone. In realtà, la visione della giurisprudenza è stata in qualche modo asimmetrica, privilegiando la tutela del contraente economicamente e socialmente più debole.

A complicare il tutto, la normativa emergenziale ha posto gli operatori di fronte ad applicazioni normative che, in tempi normali, non sarebbero neppure state prevedibili ma che, in quanto eccezionali, potrebbero richiedere interpretazioni eccezionali e innovative.

È altrettanto chiaro che operativamente, proprio sul presupposto del comune interesse del datore di lavoro e del lavoratore, nella maggior parte dei casi siano prevedibili (ed auspicabili) accordi derogatori ai termini e/o alle indennità di mancato preavviso.

*Avvocato in Biella

 

 

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