RESIDENZA FISCALE DELLE PERSONE FISICHE: confronto 2023/2024

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di Paolo Soro*

Il Decreto Legislativo di riforma in materia di fiscalità internazionale entrato in vigore il 1° gennaio 2024 stabilisce, tra le altre, alcune modifiche rispetto al precedente art. 2, comma 2, TUIR (che resta comunque in vigore fino al 31/12/2023), in merito alla residenza fiscale delle persone fisiche; modifiche che possono così essere sintetizzate:

  • Ai fini del calcolo dei 183/184 giorni, rilevano anche le frazioni di giorno (giorno di arrivo nello Stato / partenza dallo Stato)
  • Viene ribadito il criterio di residenza secondo il Codice Civile, come dimora abituale
  • È formalizzato l’elemento della presenza effettiva, anche discontinua, nello Stato
  • Il domicilio è ora inteso quale centro delle relazioni personali e familiari
  • La mancata iscrizione all’AIRE diventa una presunzione relativa suscettibile di prova contraria.

Ovviamente, tutti i suddetti criteri devono essere verificati per la maggior parte del periodo di imposta, tenendo conto anche degli eventuali periodi non consecutivi.

Tale novella impone un’accurata analisi delle concrete situazioni, specie per quei lavoratori che si trasferiscono all’estero alle dipendenze di un’azienda straniera, oppure, senza mutare il proprio datore di lavoro, prestano l’attività da remoto in modalità smart working, essendo fisicamente e stabilmente presenti in un Pese straniero.

Preliminarmente, giova ricordare che la norma convenzionale internazionale prevale rispetto alle leggi nazionali. Detta prevalenza del modello convenzionale sul diritto interno è pacificamente riconosciuta nell’ordinamento italiano (Costituzione, art. 117) e, in ambito tributario, sancita dall’articolo 169 del TUIR e dall’articolo 75 del DPR 600/1973; oltre a essere stata affermata dalla giurisprudenza costituzionale (si vedano, sentenze della Corte Costituzionale 26 novembre 2009, n. 311; 24 ottobre 2007 n. 348 e n. 349). Peraltro, la prevalenza convenzionale in questione non sposta l’ago della bilancia normativa nazionale con riguardo ai problemi concernenti l’individuazione della residenza fiscale (che permangono – come pure i conseguenti rischi di c.d. “doppia residenza”), per

il fatto che sono proprio i trattati internazionali a sancire che:

“L’espressione ‘residente di uno Stato contraente’ designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è assoggettata a imposta nello stesso Stato a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione e di ogni altro criterio di natura analoga”.

In pratica, le convenzioni fanno salve le leggi interne per quanto concerne la determinazione della residenza fiscale dei “propri” contribuenti. Ergo, prima ancora di accertare quanto stabilito dalla convenzione di turno, occorre ovviamente andare a verificare la normativa nazionale afferente alla residenza fiscale, da cui poi dipenderanno sia i citati obblighi dichiarativi, che eventuali adempimenti conseguenti, quali – ad esempio – quelli legati al versamento delle ritenute, alla dichiarazione dei valori finanziari detenuti all’estero (monitoraggio fiscale / IVAFE), nonché degli immobili (IVIE).

Il testo della disposizione italiana in vigore fino al 2023, era il seguente:

“Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile”.

Il nuovo testo attualmente vigente, invece, si presenta come segue:

“Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta, considerando anche le frazioni di giorno, hanno la residenza ai sensi del codice civile o il domicilio nel territorio dello Stato ovvero sono ivi presenti. Ai fini dell’applicazione della presente disposizione, per domicilio si intende il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona. Salvo prova contraria, si presumono altresì residenti le persone iscritte per la maggior parte del periodo di imposta nelle anagrafi della popolazione residente”.

Di seguito, si espone uno schema sintetico di raffronto, nel quale sono riassunte le differenze tra le due norme:

Inutile, evidenziare che l’anello debole della catena continua a essere il c.d. “centro degli interessi vitali”. Nella relazione illustrativa della nuova disposizione di legge qui oggetto di analisi, si legge che:

“La proposta modifica il criterio di collegamento ai fini della determinazione della residenza fiscale delle persone fisiche, sostituendo il criterio civilistico del domicilio con un criterio di natura sostanziale, mutuato dalla prassi internazionale e dalle convenzioni per evitare le doppie imposizioni, in cui il domicilio è il luogo in cui si sviluppano in via principale le relazioni personali e familiari del contribuente”. 

A voler esser pignoli, il Modello Convenzionale OCSE include il centro degli interessi vitali al secondo posto delle c.d. tie breaker rules (di cui al paragrafo 2, art. 4 – Resident). Il primo requisito a favore del contribuente resta sempre una “permanent home available”. E solo nel caso in cui detto elemento non sia dirimente, si passa alla verifica delle relazioni costituenti il centro degli interessi vitali. Dette relazioni, peraltro, non sono qualificate come “personali e familiari”, ma vengono così indicate: “his personal and economic relations are closer (centre of vital interests)”. Ovviamente, tutto sta nel comprendere esattamente cosa il Modello OCSE intende per “relazioni personali ed economiche”, rispetto a quello che intende il nostro Legislatore con “relazioni personali e familiari”. 

Orbene, è da rilevare come il predetto parametro legato al domicilio sia, in realtà, diventato ancor maggiormente delicato proprio con la disposizione normativa del 2024, la quale: da un lato, consente ora di fare riferimento pure alla presenza fisica del contribuente nello Stato (seppure, spesso assai ardua da dimostrare); dall’altro, indirizza eventuali giudicati attinenti al significato del termine “domicilio”, esclusivamente con riguardo agli interessi personali e familiari(viceversa, prima il domicilio era di fatto equamente ripartito tra gli “interessi personali” e quelli “economici” del contribuente).

Atteso che non esistono certo problemi di sorta nell’identificare in concreto cosa siano gli “interessi familiari”, l’interprete incontra non poche difficoltà nel comprendere con esattezza cosa viceversa intenda esattamente il legislatore relativamente ai novellati “interessi personali”. Salvo non presupporre un vero e proprio inciampo da parte dello stesso legislatore, il termine “interessi personali” deve necessariamente essere visto come interessi anche e soprattutto “lavorativi”, posto che quelli esclusivamente “familiari” sono comunque già espressamente ripresi e subito a seguire menzionati dalla norma in questione; la quale, invece, non presenta più il termine “interessi economici”. Di certo, sarebbe illogico e inammissibile che gli “interessi lavorativi” – quasi sempre unica ragione di espatrio – non acquisiscano alcuna rilevanza in tema di residenza fiscale dei contribuenti.

Tenuto altresì conto del fatto che con la novella normativa in questione, il legislatore nazionale intendeva cercare di equiparare il significato da attribuire al centro degli interessi vitali (rectius, domicilio), con quello indicato in ottica convenzionale, e che i trattati – per l’appunto – fanno sempre riferimento sia agli interessi familiari che a quelli di lavoro (come anche meglio precisati nel Commentario del modello OCSE), si deve concludere che, al di là di un mero “rafforzamento” dell’importanza degli interessi familiari, restano ancora rilevanti pure quelli prettamente lavorativi, purché di tipo personale. Per meglio dire, sostituendo il termine “economici” con il termine “personali”, visto che resta altresì evidenziato il termine “familiari”, il legislatore ha voluto escludere che il domicilio (quale centro degli interessi vitali) potesse essere attribuito sulla base di qualsivoglia interesse economico che il contribuente italiano vanti all’estero, ma abbia inteso tutelare – a tal proposito – esclusivamente gli interessi lavorativi personali propri del contribuente, in quanto oggettivamente parte inscindibile del suo centro di interessi vitali (domicilio).

In effetti, la relazione tecnica tiene a precisare che: “L’intervento rappresenta un adeguamento alla prassi internazionale e alle Convenzioni contro le doppie imposizioni, al fine di dare maggiore certezza giuridica. Inoltre, l’inserimento nel TUIR di una definizione specifica di domicilio ha l’obiettivo di ridurre l’ampio contenzioso tributario venutosi a creare negli ultimi anni in virtù del rinvio contenuto nel vigente articolo 2 del TUIR al domicilio civilistico. Detta semplificazione appare idonea a riflettersi positivamente anche sulle attività di accertamento e di controllo”. 

Ebbene, nella concreta fattispecie, il citato Commentario all’art. 4 del modello di convenzione OCSE, afferma:

“It is nevertheless obvious that considerations based on the personal acts of the individual must receive special attention.

D’altronde, se un contribuente decide di andare a vivere all’estero perché non trova lavoro in Italia, ma non ha la possibilità economica di trasferire anche tutta la propria famiglia (oppure, ne ha la possibilità, ma altri interessi vitali quali quelli relativi alla presenza di amici e parenti che possano intervenire in caso di bisogno, o difficoltà linguistiche e di ambientazione, ne sconsigliano il trasferimento – specie se ci sono di mezzo dei bambini in età scolare o pre-scolare), non è possibile attrarre, solo per questo, la residenza fiscale in Italia.

Inoltre, bisogna tener conto anche dell’eventuale residenza fiscale acquisita in base alle leggi dello Stato estero interessato dal trasferimento (salvo evidentemente non si tratti di un Paese a fiscalità privilegiata, o privo di convenzione con l’Italia). Ciò, tanto più, laddove avessimo a che fare con un Paese UE, legato all’Italia anche dal complesso di regole disciplinate nei trattati TUE e TFUE.

Per le ipotesi in cui le normative domestiche degli Stati contraenti entrino in conflitto, qualificando entrambe la persona come residente, il paragrafo 2, articolo 4, modello OCSE interviene stabilendo che le fattispecie debbano essere risolte con l’attribuzione della residenza a uno solo dei due Paesi, mediante l’applicazione, secondo un criterio gerarchico prioritario, di specifiche regole (le già richiamate tie breaker rules).

Questo potrebbe verificarsi, ad esempio, nel caso in cui un soggetto acquisisca la residenza del Paese in cui è contrattualmente fissata la propria sede lavorativa, ma mantenga, in funzione di quanto sopra precisato, la dimora abituale o il domicilio in Italia, anche in virtù della possibilità di svolgere la prestazione lavorativa (totalmente o parzialmente) in modalità agile. In siffatte circostanze, le regole convenzionali fanno prevalere il criterio dell’abitazione permanente cui seguono, in via subordinata, il centro degli interessi vitali, il soggiorno abituale e la nazionalità del contribuente. Riguardo alla nozione di abitazione permanente, nella risposta a interpello 173/2023 è stato operato un rinvio al Commentario dell’articolo 4, paragrafo 2, modello OCSE, in cui si chiarisce, ai punti 12 e 13, la nozione di abitazione che una persona fisica mantiene e organizza per un utilizzo permanente. Si tratta, dunque, di un immobile attrezzato e reso idoneo a una lunga permanenza nello stesso. A prescindere dalla tipologia dell’abitazione e dal titolo giuridico in base al quale se ne dispone, ciò che rileva è la circostanza che la persona fisica abbia predisposto l’abitazione per utilizzarla in modo duraturo e continuo e non occasionalmente ai fini di una breve permanenza (come, ad esempio, per un viaggio di piacere, un viaggio di affari o per fini di studio etc.).

Come anche ribadito dall’Agenzia nella risposta 294/2019, quando la persona fisica dispone di un’abitazione permanente in entrambi gli Stati contraenti, sarà considerata residente, in virtù del criterio del centro degli interessi vitali, nel Paese nel quale le sue relazioni personali ed economiche (fonte convenzionale) sono più strette. Ove non sia possibile individuare la residenza del contribuente in base ai due criteri sopra citati, una persona fisica sarà considerata residente dello Stato in cui soggiorna abitualmente(criterio della dimora abituale). Quando i primi tre criteri non sono dirimenti, il contribuente sarà considerato residente dello Stato contraente di cui possiede la nazionalità. Quando, infine, una persona fisica ha la nazionalità di entrambi i Paesi o di nessuno di essi, gli Stati contraenti risolveranno la questione di comune accordo (previa attivazione delle c.d. MAP: mutual agreement procedure).

Per contro, in assenza di conflitto con le normative interne di Stati che hanno concluso una convenzione con l’Italia, oppure in assenza di una specifica convenzione contro le doppie imposizioni, la disposizione di riferimento per la determinazione della residenza fiscale resta unicamente l’articolo 2, comma 2, TUIR.

Prima, però, di continuare ad analizzare i singoli requisiti intervenuti con la riscrittura della disposizione oggetto di esame, giova ricordare quanto affermato nell’ultimo documento di prassi (Circolare 25/2023) emanato dall’Agenzia delle entrate, relativamente al concetto di residenza fiscale, posto che comunque tali affermazioni, quanto meno nella sostanza, restano applicabili anche nel corrente 2024.

Con il documento in questione, l’Amministrazione finanziaria osserva che l’accertamento delle condizioni per stabilire la residenza (diverse dal dato formale dell’iscrizione anagrafica), presuppone un riscontro fattuale da eseguirsi caso per caso, al fine di una concreta ponderazione degli elementi che consentano di verificare il luogo di residenza come definito in base alla normativa civilistica. Nonostante la valenza tributaria, infatti, le nozioni richiamate dall’articolo 2 del TUIR vanno intese, per espressa previsione normativa, ai sensi della disciplina contenuta nel codice civile che, all’articolo 43, definisce il domicilio come il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi e fa coincidere la dimora abituale con il luogo di residenza.

In particolare, per configurare la residenza non è necessaria la continuità o definitività della dimora abituale, con la conseguenza che periodi anche prolungati di assenza non ne escludono il radicamento in Italia. In merito al domicilio, occorre tenere conto anche dei rapporti di natura non patrimoniale, come quelli personali e affettivi, per considerare localizzato in Italia il centro degli affari e degli interessi. Tali indicazioni sono state recepite e sviluppate dalla giurisprudenza di legittimità, che, proprio riguardo al concetto di domicilio, ha chiarito come lo stesso debba essere inteso quale sede principale degli affari e interessi economici, nonché delle relazioni personali, desumibile da elementi presuntivi (Cassazione: 21694/2020, 14434/2010, 13803/2001). Detto concetto di domicilio va valutato, quindi, in relazione al luogo in cui la persona intrattiene sia i rapporti familiari che quelli economici (Cassazione SS UU 25275/2006; Cassazione 14240/2021), dovendo il concetto di interessi, in contrapposizione a quello di affari, intendersi comprensivo anche di quelli c.d. “personali” (Cassazione: 6081/2019, 29576/2011).

Secondo l’elaborazione della giurisprudenza si tratta di una situazione di fatto che presuppone l’esistenza di un duplice requisito, oggettivo e soggettivo, vale a dire, rispettivamente, la permanenza in un determinato luogo e l’intenzione di abitarvi in modo stabile, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali (Cassazione 25726/2011).

Con riferimento alla dimora abituale, la giurisprudenza di legittimità, riconosciuto che affinché sussista il requisito della “abitualità della dimora” non è necessaria la continuità o la definitività (Cassazione 2561/1975; Cassazione SS UU 5292/1985), ha chiarito che detta condizione permane anche se il soggetto lavora o svolge altre attività al di fuori del comune di residenza (nel territorio dello Stato), purché conservi in esso l’abitazione, vi ritorni quando possibile e mostri l’intenzione di mantenervi il centro delle proprie relazioni familiari e sociali (Cassazione 1738/1986, richiamata dalla più recente Cassazione 25726/2011). La residenza, dunque, non viene meno per assenze più o meno prolungate, dovute alle particolari esigenze della vita moderna, quali ragioni di studio, di lavoro, di cura o di svago (Cassazione 435/1973). Più recentemente, i giudici di legittimità hanno altresì precisato che “il centro principale degli interessi vitali del soggetto va individuato dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente in modo riconoscibile da terzi” (Cassazione 25189/2022, che richiama Cassazione 6501/2015).

Pertanto, in presenza del requisito formale della cancellazione anagrafica (con contestuale iscrizione all’AIRE – fattore derubricato dal legislatore del 2024 a mera presunzione relativa), l’indagine deve concentrarsi sulla verifica dei criteri alternativi di residenza e domicilio, da intendersi secondo l’approccio qualitativo sopra ricordato. L’obiettivo da perseguire attraverso le indagini è l’accertamento della simulazione di un soggetto che, nonostante le risultanze anagrafiche attestanti il trasferimento della residenza all’estero, mantenga in realtà il centro dei propri interessi rilevanti in Italia. In altri termini, occorre che dalle indagini scaturisca una valutazione d’insieme dei molteplici rapporti che il soggetto intrattiene nel nostro Paese. In funzione di quanto precede, emerge allora che, in realtà, il dato formale dell’iscrizione all’AIRE non sarebbe comunque di per sé elemento sufficiente a escludere la residenza, qualora, da una valutazione complessiva dei rapporti economici, patrimoniali e affettivi, risultassero integrati i più volte citati altri criteri di individuazione della predetta residenza fiscale nel nostro Paese.

Ulteriore innovazione prevista dal legislatore del 2024 è quella che attiene al calcolo dei giorni (183 o 184 negli anni bisestili), all’interno del periodo d’imposta. La norma in verità non si esprime in numero di giorni, ma resta comunque immutata la previgente locuzione: “maggior parte del periodo di imposta”; ossia, più di 6 mesi (per meglio precisare, 183 giorni).

Un elemento d’aiuto al fine di meglio perimetrarne la portata, potrebbe ritrovarsi nelle indicazioni di prassi già fornite al riguardo, con espresso riferimento al lavoro dipendente. Ciò consentirebbe di considerare anche i periodi a cavallo di anno, all’interno dei dodici mesi (Commentario OCSE dell’articolo 15 del modello convenzionale). Senonché, il tenore letterale della legge italiana ne delimita inequivocabilmente gli effetti – come appena ricordato – solo alla “maggior parte del periodo di imposta”. Tale interpretazione, pacificamente fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità italiana, non combacia con quanto indicato nel menzionato Commentario del modello OCSE. Peraltro, la divergenza si giustifica con il fatto che, mentre in Italia (oltre che in Spagna e in pochissime altre nazioni) la residenza fiscale si acquisisce per l’intero periodo di imposta, nella stragrande maggioranza degli altri Stati la residenza fiscale è acquisita sempre in base alle effettive frazioni di anno solare.

Ciò doverosamente chiarito, l’elemento di novità stabilito nel comma 2 dell’art. 2 in esame, resta la precisazione in merito al calcolo che, ora, deve tenere conto anche delle frazioni di giorni, senza però specificare la durata minima di tali frazioni di giorni. In proposito, si deve ritenere che anche poche ore in differenti giorni facciano cumulo fra loro e, laddove si superi la metà di una giornata, detta frazione conti quale giorno intero. In sostanza, nel calcolo si deve tenere conto di: giorno di arrivo e giorno di partenza (per frazioni di giornata), nonché più in generale di ogni periodo di interruzione – anche breve – del tempo in cui l’attività è esercitata nello Stato, quali: sabati, domeniche, festività, ferie, congedi per malattia (o per malattia, decesso di un familiare), etc.

La relazione illustrativa specifica che tutti i criteri devono essere verificati per la maggior parte del periodo di imposta, tenendo conto anche dei periodi non consecutivi (ma pur sempre all’interno del singolo periodo di imposta interessato). Viene, peraltro, affermato che:

“Non si è ritenuto, invece, di recepire la richiesta di cui alla lettera b) del parere della VI Commissione finanze della Camera dei deputati, in quanto la locuzione ‘frazioni di giorni’ contenuta nel testo risulta sufficientemente chiara e non necessita, in via normativa, di una specifica declinazione.” 

Francamente, l’affermazione sembra abbastanza sbrigativa, posto che qualche delucidazione in più non sarebbe stata affatto sgradita, onde ridurre al minimo eventuali future difforme interpretazioni (e contenziosi). Del resto, occorre ricordare che le note al decreto pubblicato in Gazzetta, tengono a evidenziare come l’obiettivo della legge sia stato quello di:

“Provvedere alla revisione della disciplina della residenza fiscale delle persone fisiche, delle società e degli enti diversi dalle società, quale criterio di collegamento personale all’imposizione, al fine di renderla coerente con la migliore prassi internazionale”. Obiettivo senz’altro lodevole che, peraltro, non si comprende proprio come si possa sperare di conseguire fintantoché la legge italiana continua a prevedere la residenza fiscale rapportata all’intero periodo di imposta (contrariamente a quanto accade in quasi tutti gli altri Stati).

Passando oltre, l’elemento (già in precedenza rappresentato) concernente la residenza, rimane invero immutato e ripropone sempre lo stesso concetto previsto dall’art. 43 del Codice Civile. La relazione illustrativa precisa in proposito, che:

“Con riferimento a questo specifico aspetto, si è ritenuto di accogliere le osservazioni di cui alla lettera a) del parere reso dalla VI Commissione finanze della Camera dei deputati e della 6^ Commissione finanze e tesoro del Senato della Repubblica, inserendo nel testo il richiamo al codice civile in relazione al criterio della residenza.”

Pertanto, anche in questo caso occorre rifarsi a quanto indicato dalla giurisprudenza negli anni, nonché, evidentemente, ai documenti d prassi emanati dall’Amministrazione finanziaria. Ebbene, considerato che la dimora coincide con il luogo in cui la persona abita o permane in un dato momento, la residenza risulta coincidere con la dimora abituale del soggetto in un dato luogo e resta in proposito connotata dai soliti requisiti oggettivi e soggettivi. Detta residenza potrà, quindi, ben essere diversa dal luogo eletto dalla persona quale proprio domicilio. E allora, perlomeno sotto tale aspetto, il terzo elemento previsto dalle tie breaker rules (paragrafo 2, articolo 4, modello convenzionale OCSE), ossia, il Paese nel quale si soggiorna abitualmente, parrebbe risultare strettamente correlato al primo: Paese presso il quale si ha un’abitazione permanente a disposizione.

Il novellato comma 2 inserisce, poi, tra i requisiti sostanziali pure l’effettiva presenza dell’interessato nel territorio dello Stato per la maggior parte del periodo di imposta:

“Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che, per la maggior parte del periodo di imposta, hanno la residenza o il domicilio nel territorio dello Stato ovvero sono ivi presenti.”

Trattasi di un’aggiunta agli altri requisiti indicati, considerato che detto criterio non era menzionato nel testo in vigore fino al 2023. Come, però, si avrà subito modo di vedere, a conti fatti questa novità appare sostanzialmente priva di concreta rilevanza pratica; oltre a comportare situazioni abbastanza particolari, atteso che l’unica possibile interpretazione sembra essere quella strettamente letterale.

Innanzitutto, giova ricordare che, anche in tal caso, la presenza può essere discontinua all’interno del periodo di imposta se, complessivamente, comunque raggiunge il limite dei 183/184 giorni, computati anche per frazioni di giornata (di cui si è scritto prima). A detto ultimo proposito, appare anzi ragionevole presumere che la novità relativa al calcolo dei giorni per frazioni, sia proprio collegata all’innovativa introduzione del requisito della presenza fisica effettiva nel territorio dello Stato. In ottica probatoria, peraltro, sembra assai arduo per un contribuente dimostrare la “presenza”; come del resto lo sarebbe anche per l’Erario, se non fosse che ovviamente quest’ultimo gode della presunzione di legge, per cui l’inversione dell’onus probandi ricade sempre a carico del cittadino.

Così si esprime la relazione illustrativa:

“La prova dell’insussistenza del requisito deve essere riferita a un numero di giorni complessivi superiore alla maggior parte del periodo d’imposta, considerando anche le frazioni di giorno nel caso della presenza fisica”. 

Le frazioni di giorno agli effetti del conteggio del periodo per la dimostrazione della presenza (esempio: giorno di arrivo nel Paese e giorno di partenza dal Paese), dovrebbero – teoricamente – poter essere provate con i biglietti del viaggio. Teoricamente, poiché in realtà è stato più volte specificato che i biglietti di viaggio possono, al più, costituire un indizio ad abundantiam, ma di certo non rappresentano una prova concreta sufficientemente valida da sola: dimostrano solo che quel giorno, a quell’ora, il cittadino X si è spostato da un Paese a un altro; nulla possono documentare in merito a tutto il restante periodo. In ipotesi, un contribuente potrebbe fare biglietti separati: andata 10 gennaio / ritorno 11 gennaio; andata 10 ottobre / ritorno 11 ottobre; e poi documentare come mezzi di prova i soli biglietti concernenti: andata 10 gennaio / ritorno 11 ottobre. A questo punto, se  coloro che vivono effettivamente all’estero (specie, se in uno degli Stati c.d. a fiscalità privilegiata) volessero tentare di utilizzare quale mezzo di prova il requisito della presenza fisica, il consiglio potrebbe essere – ad esempio – quello di utilizzare la propria carta di credito sempre, anche solo per comprare quotidianamente il pane; quanto meno per un totale di 183/184 giorni nello stesso periodo di imposta. Per quanto, pure questo mezzo di prova potrebbe essere in ultima analisi contestato sul fondamento che la carta di credito è stata in realtà data a terze persone e l’operazione dimostra solo che quel giorno è stato comprato il pane all’estero; ma non dimostra pure che l’acquisto sia stato fisicamente eseguito proprio dal titolare della carta, interessato all’acquisizione della residenza fiscale.

Insomma, questo requisito della presenza: da un lato, sembrerebbe inserito quasi per dare una sorta di “contentino” ai contribuenti, onde poter propagandare una nuova legge che si basa sulla sostanza e non sulla forma; dall’altro lato, però, lascia il tempo che trova, perché, in ogni caso, la “presenza” è, sì, requisito di sostanza, ma resta sempre e solo una delle varie condizioni richieste; per giunta, difficilissima da provare. Viceversa, si ribadisce, l’Agenzia non ha bisogno di provare, ma è sufficiente che “presuma”.

Sinceramente non si riesce proprio a vedere dove sia mai la reale portata di questa nuova disposizione, se con ciò si vuole intendere che il Governo ha voluto compiere un qualsivoglia passo verso sostanza, equità e giustizia; semmai, è più probabile il contrario.

Come altresì evidenziato nella relazione illustrativa, solo la proposta emendativa concernente il previgente requisito della mancata iscrizione all’AIRE, permette di mitigare, ai fini della residenza, il puro dato formale dell’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente che non abbia un reale riscontro fattuale, modificando la presunzione assoluta in favore di una presunzione relativa che consenta al contribuente di fornire prova contraria rispetto a quanto stabilito ex lege. Questa è forse una delle novità concretamente destinate ad avere maggiore impatto sulla situazione attuale (anche in materia di contenzioso), per quanto la difficoltà di vincere la presunzione appare agli effetti pratici tutt’altro che semplice:

Salvo prova contraria, si presumono altresì residenti le persone iscritte per la maggior parte del periodo di imposta nelle anagrafi della popolazione residente.”

Si conceda, qui, di aprire una piccola “parentesi”: le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto (art. 2727 codice civile). Le presunzioni legali – nello specifico – dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite (art. 2728 codice civile). Dette presunzioni legali, possono essere assolute (per le quali non è ammessa la prova contraria), o relative (per le quali è consentito al contribuente di dimostrare l’insussistenza della pretesa impositiva). Nel caso de quo, siamo evidentemente di fronte a una presunzione legale relativa, contro cui è ammessa – quanto meno, in teoria – la prova contraria a carico del cittadino.

In ogni caso, al di là della sua difficile attuazione pratica, si tratta di una norma che era oramai divenuta di estrema necessità, tenuto conto delle situazioni paradossali in cui si era (e tutt’ora si è) soliti imbattersi nella realtà. Esistono, invero, tantissimi cittadini italiani che vivono ininterrottamente all’estero da svariati anni, non hanno alcun affetto o interesse in Italia, nemmeno vi ritornano in vacanza, e, purtuttavia, non si sono mai iscritti all’AIRE: con la conseguenza che (almeno fino al 31 dicembre 2023) erano e restano considerati fiscalmente residenti in Italia, con l’obbligo di dichiararvi tutti i redditi prodotti nel loro – effettivo e reale – Paese di residenza, nonché altresì dover denunciare al nostro Fisco il possesso del proprio conto corrente bancario straniero. Orbene, quanto meno questi casi – tutt’altro che infrequenti – si spera possano essere facilmente risolti (seppure, a valere solo per il futuro – cioè, a decorrere dal periodo di imposta 2024). In quest’ottica, francamente, sarebbe stato più che opportuno prevedere, per la specifica disposizione in parola, una validità retroattiva. Così, non è stato. Si pensi, ad esempio, a determinate leggi speciali, come quella che disciplina il Regime Impatriati, per il quale è stata appositamente statuita un’eccezione rispetto a quella che era la normativa ordinaria ante 2024 in materia di residenza fiscale, proprio con riferimento al predetto ex-requisito formale dell’iscrizione all’AIRE.

Comunque, la novità è senz’altro da accogliere con favore; seppure, di fatto, considerata la nuova disciplina nel suo complesso, in taluni casi limite sembrerebbe abbastanza immediato escludere la presunzione ex lege. A fronte di ciò, è bene rammentare che la determinazione della residenza fiscale è prioritariamente determinata dagli altri requisiti formali e sostanziali, alternativi fra loro. Di conseguenza, non ci si potrà certo limitare a fare affidamento soltanto sull’eventuale possibilità di produrre una prova contraria rispetto alla presunzione concernente la mancata iscrizione all’AIRE, tralasciando di curare pedissequamente tutto il resto.

In conclusione, è evidente che si è tutti particolarmente ansiosi di leggere le prime interpretazioni che giurisprudenza e prassi forniranno relativamente alle novità legislative introdotte; non fosse altro che per sapere come regolarsi di fronte alle richieste dei clienti.

Prima di chiudere, solo un’ultima questione sulla quale corre l’obbligo di richiamare l’attenzione: quella concernente i noti Paesi a fiscalità privilegiata (c.d. ex “black-list”). Il decreto, infatti, non apporta alcuna modifica al comma 2-bis, art. 2, TUIR. Conseguentemente, resta immutata la presunzione di legge sulla residenza dei cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti negli Stati di cui all’elenco del decreto del Ministero delle Finanze 4 maggio 1999. Riguardo a tale disposizione ministeriale, in sostanza, l’unica novità resta la fuoriuscita della Svizzera, ma sempre e solo a decorrere dal periodo di imposta 2024.

Quanto al resto, la recente Cassazione 35284/2023 ha affermato come, contro la predetta presunzione di legge, il contribuente possa dimostrare la propria residenza avvalendosi degli usuali criteri convenzionali. D’altronde, il legislatore si esprime nella stessa maniera – “salvo prova contraria” – sia con riguardo all’iscrizione all’AIRE (comma 2), che relativamente ai Paesi a fiscalità privilegiata (comma 2-bis).

Dunque, la prova dell’assenza dei criteri che determinano la residenza nel territorio dello Stato potrà essere fornita dal contribuente dimostrando, con i consueti mezzi di prova (consumi utenze intestate, movimenti bancari e/o di carte di credito/ debito relativi ad acquisti quotidiani dei beni basilari di prima necessità effettuati nel Paese, caratteristiche dell’attività lavorativa svolta, casa abitata realmente con continuità, autoveicoli regolarmente in circolazione, spese sanitarie, abbonamenti ai mezzi pubblici locali, frequentazioni di palestre e circoli locali, attestati rilasciati dal Comune di residenza, etc.), di non avere in Italia la residenza, il domicilio e di non essere stato fisicamente presente nel territorio dello Stato per la maggior parte del periodo di imposta. D’altronde, la stessa relazione tecnica precisa che:

“Alla presente disposizione, non si ascrivono effetti finanziari, trattandosi di interventi definitori che troveranno applicazione nelle diverse attività di accertamento, salvaguardando sempre la prova contraria dei contribuenti.”

Si spera vivamente che possa essere effettivamente così…

*ODCEC Roma

 

 

 

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