GENUINITA’ DELLE CO.CO.CO E VALIDITA’ DELLA CONCILIAZIONE ALLA LUCE DELLA GIURISPRUDENZA. La sentenza n°1483 del 14/04/2023 della Corte D’Appello Roma.

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di Bruno Anastasio* e Oriana Costantini**

Da oltre vent’anni il mercato del lavoro è in continua evoluzione e trasformazione. Il processo di globalizzazione ha innescato una vera e propria rivoluzione culturale e sociale, che ha anche coinvolto il mondo del lavoro, generando nuove esigenze e ribaltando le dinamiche preesistenti. Il legislatore nazionale dovrebbe tener conto che la logica del lavoro è ormai da tempo mutata e che per poter seguire la fluttuazione dei mercati e lo spostamento delle logiche di produzione, è necessario e doveroso poter ricorrere a tutti gli strumenti messi a disposizione dal diritto, tenendo sempre ben conto della chiarezza, certezza e solidità di tali strumenti.

In questo processo di rivoluzione ed evoluzione, anche le tipologie contrattuali devono essere fortemente attenzionate, creando e favorendo la possibilità di ricorrere, scevri da ogni pregiudizio, a quelle che meglio si possono adattare alle nuove richieste e dinamiche lavorative, ma che soprattutto consentano una forte flessibilità in determinati contesti lavorativi, pur preservando i diritti del lavoratore.

Ed è per questo che da anni ormai si dibatte sulla corretta applicazione delle collaborazioni coordinate e continuative, le così dette co.co.co (art. 409 n.3 .; artt.52 e 54 Decreto Legislativo 25 giugno 2015, n. 81 “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”; art.2222 C.C).

Le caratteristiche principali di tale tipologia contrattuale sono:

  • l’autonomia funzionale del collaboratore;
  • il coordinamento tra il committente e il collaboratore che dovrà svolgere il mandato in completa autonomia;
  • la continuità ovvero una prestazione non meramente occasionale;
  • la prevalenza del carattere personale dell’apporto lavorativo del collaboratore.

Gli elementi distintivi che esprimono la vera essenza e la natura delle co.co.co sono la mancanza del vincolo di subordinazione e la completa assenza dell’eterodirezione. Per questo le collaborazioni coordinate e continuative sono per loro stessa natura giuridica collocate a metà tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, rientrando nella categoria, mal digerita dal nostro ordinamento, della para subordinazione.

Questa tipologia contrattuale, seppur esistente e chiaramente disciplinata, resta ad oggi poco utilizzata per svariati motivi. Innanzitutto, la normativa ha subito continue evoluzioni, conferendo una connotazione di poca stabilità e concretezza; inoltre, essendo una tipologia che gioco forza si colloca per sua stessa natura in una sorta di zona d’ombra, in ottica sindacale questo viene interpretato e letto come un tentativo di elusione alla subordinazione. Le co.co.co., per tali motivi, sono uno strumento a cui si ricorrere con poca frequenza, visti i forti dubbi sulla sua liceità.

La sentenza n° 1483 della Corte D’appello di Roma, che ci accingiamo a commentare, potrebbe essere il giusto sprone al corretto utilizzo delle collaborazioni coordinate e continuative ed anche delle conciliazioni sindacali.

L’appello in questione è stato proposto da due lavoratrici non soddisfatte dal giudice di primo grado, che aveva condannato l’azienda al risarcimento di circa 6.000 € a fronte degli oltre 70.000 € richiesti dalle due lavoratrici a mezzo dei loro legali. Le due lavoratici esponevano di aver lavorato alle dipendenze dell’azienda in virtù di fittizi contratti a progetto, più volte prorogati e di aver sottoscritto dei verbali di conciliazioni nulli o illegittimi in quanto prevedevano la sottoscrizione di un nuovo contratto di lavoro con retribuzione inferiore. Il consigliere della corte d’appello ha analizzato con cura la documentazione e ha argomentato ogni motivazione alla sua sentenza, riformando la gravata sentenza di primo grado.

Innanzitutto, pone un punto fermo sulla validità della conciliazione. La conciliazione sindacale, richiamata in sentenza, è una transazione in “camera protetta” alla presenza dei sindacati dei lavoratori e/o di sindacati datoriali ed è un procedimento attraverso il quale le parti assistite dai conciliatori risolvono insorte o insorgende controversie su elementi della retribuzione non corrisposti o sulla non applicazione di un diritto certo “determinato o determinabile” del rapporto di lavoro.

Nella fattispecie, le lavoratrici avevano asserito che le conciliazioni sottoscritte erano da ritenersi invalide in quanto non era stato spiegato loro il contenuto dei verbali e che, soprattutto, dal verbale di conciliazione risultava che avessero conferito delega ad un sindacalista appartenente ad un sindacato a cui loro non risultavano formalmente iscritte. La sentenza chiarisce, senza lasciare spazio ad ogni possibile interpretazione, che la sede sindacale è corretta anche se l’assistenza è fornita da un sindacato diverso da quello di appartenenza. Inoltre, ribadisce che ai fini della validità della conciliazione è sufficiente e necessaria la presenza e l’assistenza del sindacalista nella sola fase della stipulazione e non anche in quelle delle trattative antecedenti. A dar forza a quanto esposto, inoltre, è che non ci sono prove di violenza e non si sono ravvisati elementi di costrizione, ma che anzi le lavoratrici hanno firmato una delega specifica per la conciliazione e che il verbale è stato letto, approvato e sottoscritto. A parere di chi scrive, la cosa più interessante che emerge dalla sentenza è che la contropartita di sottoscrizione di un nuovo contratto alla firma della conciliazione “non è qualificabile come minaccia di un male ingiusto e notevole, ma costituisce la contropartita della rinuncia delle lavoratrici.” La corte, in questo modo, esprime un concetto molto forte ed utile per l’utilizzo dello strumento che stiamo analizzando: “Rinnovare un contratto ad un collaboratore non è identificabile quale esercizio di potere disciplinare ma esprime una mera valutazione di convenienza a stipulare un nuovo contratto, qualunque esso sia.” Pertanto, riconoscendo la validità e la legittimità delle conciliazioni, tutte le richieste fatte dalle lavoratrici per il periodo conciliato sono state anche esse, in sede di appello, disconosciute.

Oltre alla richiesta di dichiarare illegittime e nulle le conciliazioni, le lavoratrici hanno mosso ricorso sostenendo che i contratti co.co.co. sottoscritti erano in realtà fittizi e da ricondurre a contratti di lavoro subordinati. Anche su questo, la corte ha rigettato senza alcun tipo di esitazione i ricorsi presentati. Dall’ascolto delle varie testimonianze e dallo studio di tutta la documentazione è emerso che non si ravvisa in alcun modo traccia di eterodirezione che, come abbiamo constatato, è l’elemento essenziale e distintivo dei contratti subordinati.

I collaboratori dell’azienda in sentenza infatti:

  • potevano scegliere quando lavorare e che postazione occupare;
  • potevano assentarsi liberamente previo solo comunicazione al coordinatore, da cui spesso non ricevevano alcuna risposta;
  • avevano una retribuzione variabile e non costante;
  • avevano un contratto che rispettava un accordo quadro espressamente previsto dal contratto collettivo nazionale del lavoro del commercio.

Tutti questi punti dalla corte vengo riconosciuti richiamando un consolidato insegnamento della Suprema Corte che si riporta integralmente: “Elemento distintivo del rapporto di lavoro subordinato da quello di lavoro autonomo è rappresentato dalla subordinazione del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro; subordinazione da intendersi come vincolo di natura personale che assoggetta il prestatore ad un potere datoriale che si manifesta in direttive inerenti, di volta in volta, alle modalità di svolgimento delle mansioni e che si traduce in una limitazione della libertà del lavoratore (cfr. explurimis Cass. Sez lav. 28.9.2006 n. 21028; Cass. sez. lav. 22.2.2006 n. 3858; Cass. sez. lav. 24.2.2006 n. 4171; Cass. 23.9.2005 n.

18660).” Quindi i lavoratori dell’azienda appellata non avendo subito nessuna eterodirezione, o se vogliamo esprimerla in altri termini non avendo subito alcuna limitazione di libertà personale e non potendo essere assoggettati ad un potere disciplinare, vengono dalla Corte D’appello richiamati di diritto e per applicazione pratica nell’orbita della para subordinazione.

 

Con la sentenza esaminata, la Corte d’Appello, riconosce la genuinità dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa nel settore call center per attività outbound. Codesta sentenza rafforza le norme del nostro ordinamento facendoci comprendere che, se utilizzate correttamente, le co.co.co. non sono in alcun modo disconoscibili e che le tante remore, che spesso accompagnano l’utilizzo di questa tipologia contrattuale, possono essere contenute e marginalizzate se il comportamento dell’azienda è conforme al dettato normativo e alle disposizioni dei contratti collettivi nazionali del lavoro.

La Corte D’Appello riforma la sentenza nelle parti a sfavore delle lavoratrici che vengono condannate al rimborso delle somme percepite con sentenza di primo grado più interessi e vengono condannate al rimborso di tutte le spese processuali di primo e di secondo grado.

 

*ODCEC Napoli

**ODCEC Parma

 

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