DIMISSIONI PER FATTI CONCLUDENTI: UN PASSO INDIETRO?
di Giada Rossi*
La disciplina delle dimissioni è stata negli anni oggetto di plurimi interventi normativi, tesi a dare tutele e certezze a un momento cruciale quale è il termine della prestazione lavorativa, da cui discendono fondamentali diritti per i lavoratori, fra i quali, principalmente, l’accesso alla Naspi o la percezione dell’indennità di preavviso.
La normativa vigente, l’art. 26 del Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 151 “Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, dispone che, al di fuori delle ipotesi previste dal Testo Unico a tutela della maternità e della paternità (Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151), le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro siano effettuate, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e trasmessi al datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente con le modalità individuate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.
Trattasi nello specifico di una procedura telematica, che può essere espletata dal lavoratore personalmente, ove in possesso del proprio PIN INPS, oppure per il tramite di un soggetto abilitato (Patronato, Organizzazione sindacale, Ente bilaterale, Commissioni di certificazione
– di cui art. 76 del D.L.von. 276/2003), istituita con la finalità di garantire una data certa alle dimissioni e al contempo di assicurare che la volontà del lavoratore si sia formata in modo libero e genuino, in assenza di qualunque tipo di costrizione.
Ripercorrendo brevemente l’evoluzione normativa in materia, la disciplina delle dimissioni si fonda sugli artt. 2118 e 2119 c.c., i quali sanciscono la regola generale della libera recedibilità da parte del lavoratore, fatto salvo il periodo di preavviso.
Un primo intervento innovativo di tale impianto regolatorio era stato attuato con la Legge 17 ottobre 2007 n. 188 “Disposizioni in materia di modalità per la risoluzione del contratto di lavoro per dimissioni volontarie della lavoratrice, del lavoratore, nonché del prestatore d’opera e della prestatrice d’opera.”, la quale stabiliva l’obbligo della forma scritta delle stesse a pena di nullità, onde garantire una maggiore tutela del lavoratore.
Tale previsione, tuttavia, oltre a comportare un irrigidimento della mobilità in uscita, non regolava l’ipotesi della risoluzione consensuale del rapporto.
La Legge 28 giugno 2012 n. 92 “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita.” interveniva ulteriormente sul punto, apportando dei correttivi proprio per le ipotesi di assenza prolungata ed ingiustificata dal posto di lavoro. Veniva così prevista la risoluzione del rapporto di lavoro qualora il lavoratore non avesse aderito, entro sette giorni dalla sua ricezione, all’invito a presentarsi presso la Direzione del lavoro o il Centro per l’impiego territorialmente competenti, o presso le sedi individuate dai C.C.N.L., ovvero alla sollecitazione ad apporre la sottoscrizione di apposita dichiarazione in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro ex art. 21 della Legge 29 aprile 1949 n. 264 “Provvedimenti in materia di avviamento al lavoro e di assistenza dei lavoratori involontariamente disoccupati.”, ovvero, ancora, non avesse provveduto ad effettuare la revoca delle dimissioni rassegnate.
Nell’anno 2015 il legislatore di nuovo interveniva nella suddetta materia, anche al fine di contrastare la deprecabile prassi delle “dimissioni in bianco” (attuata in danno al lavoratore, addirittura talvolta forzato a sottoscrivere un documento recante le proprie dimissioni, privo di data, contestualmente alla sottoscrizione del contratto di assunzione), prevedendo che, a partire dal 12.3.2016, le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro dovessero essere effettuate, “a pena di inefficacia”, con modalità esclusivamente telematiche, tramite una procedura online accessibile dal sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
Nel solco della citata normativa, è intervenuta la recente sentenza della Suprema Corte n. 27331 del 26.9.2023, chiamata a decidere sull’impugnazione promossa da un lavoratore, avverso la sentenza della Corte di Appello di Catania (confermativa della pronuncia emessa dal Tribunale della medesima sede), avente ad oggetto un caso in cui si controverteva sulla riconducibilità della cessazione del rapporto di lavoro al lavoratore (quindi a seguito di dimissioni volontarie, seppur senza le forme previste dalla legge) piuttosto che al datore di lavoro (licenziamento orale). Il Tribunale e la Corte d’Appello avevano ritenuto che il lavoratore non avesse raggiunto la prova dell’invocato “licenziamento orale”, sicché, nel rispetto del principio di cui all’art. 2697 cc, secondo il quale “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, accertavano la legittimità delle dimissioni rese dal lavoratore.
La Corte territoriale aveva richiamato consolidata giurisprudenza che – nella vigenza del criterio, dettato dall’art. 2118 c.c., della libertà delle forme per il recesso del lavoratore – stabiliva i principi a cui attenersi nella valutazione dell’assolvimento dell’onere probatorio al fine di risolvere i profili di incertezza sulla effettiva causa di estinzione del rapporto di lavoro nei casi in cui una parte (i.e. il lavoratore) deduca una intervenuta comunicazione orale di espulsione e l’altra parte (i.e. il datore di lavoro) affermi l’opposta comunicazione orale di dimissioni.
La Suprema Corte cassava la citata pronuncia della Corte d’Appello sull’assunto che la stessa si fosse concentrata sui principi e criteri relativi all’onere probatorio, senza avvedersi che le ipotesi esaminate dalla Suprema Corte, quindi i principi a cui si ispirava, erano sottratte alla più incisiva normativa introdotta dapprima, conla L. n. 188 del 2007, art. 1, successivamente con la L. n. 92 del 2012, art. 4, e, in ultimo, con il D.Lgs. 151 del 2015, art. 26, che – a pena di nullità, ex L. n. 188 citata, e a pena di inefficacia, ex D.Lgs. n. 151 citato – ha introdotto per le dimissioni (e per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro) l’onere della forma scritta. L’applicazione dei principi di diritto innanzi richiamati non si attaglia, pertanto, al caso di specie, che ricade nel campo di applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2015.
La Cassazione giungeva quindi ad affermare il seguente principio di diritto: ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 26, il rapporto di lavoro subordinato può essere risolto per dimissioni o per accordo consensuale delle parti solamente previa adozione di specifiche modalità formali oppure presso le sedi assistite, a pena di inefficacia dell’atto.
Questa pronuncia, seppur coerente con il dettato normativo, contrasta con l’orientamento che si era formato in concomitanza con la pandemia Covid, al fine di contrastare il dilagare di comportamenti fraudolenti di dipendenti che, volendo abbandonare il posto di lavoro, si assentavano dallo stesso senza motivazione e protraevano detta assenza sine die, allo scopo di indurre il datore di lavoro a procedere al loro licenziamento, così ottenendo l’accesso all’indennità di disoccupazione (Naspi).
Grande clamore aveva suscitato la pronuncia n. 20 del Tribunale Udine sez. lav. del 27/05/2022, accolta con soddisfazione da aziende e da buona parte degli operatori del diritto, che nel caso di una lavoratrice assente senza alcuna giustificazione dal posto di lavoro per oltre sei mesi, vedeva risolto il rapporto di lavoro a seguito di comunicazione di cessazione effettuata dall’azienda al competente centro per l’impiego con la motivazione “dimissioni volontarie”.
Nel caso di specie, infatti, la lavoratrice si era assentata volontariamente in via continuativa dal lavoro, senza mai fornire alcuna giustificazione all’azienda e senza nemmeno riscontrare le missive della datrice di lavoro. Quest’ultima, attesa la lunga e perdurante assenza, quindi la chiara percezione dell’intenzione di non riprendere la propria mansione lavorativa, invitava la lavoratrice a rendere dimissioni volontarie nelle forme di legge, avvisandola altresì che, in difetto, il rapporto di lavoro si sarebbe comunque risolto.
Nell’istruttoria era emerso che l’assenza era dipesa da una libera scelta della lavoratrice, la quale contestava le decisioni aziendali in tema di mansioni affidate.
La Corte di merito ben precisava che, per concepire una risoluzione per fatti concludenti nell’ambito del rapporto di lavoro, l’inerzia protratta nel tempo non fosse idonea, se isolatamente considerata, a manifestare una volontà abdicativa, dovendo invece tale inerzia inserirsi in un contesto idoneo ad ingenerare un valido affidamento dell’altra parte. La giurisprudenza di legittimità, infatti, in più occasioni ha precisato che “… l’assenza dal lavoro ingiustificata di per sé sola non presenta il carattere della univocità tale da consentire di ravvisarvi la volontà di dimissioni, e l’indagine compiuta dal giudice di merito deve essere particolarmente rigorosa in considerazione della rilevanza dell’interesse oggetto della disposizione.” (v., così, Cass. civ. – Sez. L, Sentenza n. 6900/2016, ma nello stesso senso, v. anche, ex multis, Cass. civ. – Sez. L, Sentenza n. 8215/2019). Nel caso di specie, vi erano molteplici elementi fattuali che dimostravano l’univoca sussistenza della volontà dismissiva in capo lavoratrice, ragionevolmente percepibile come tale dal datore di lavoro (in quel caso, veniva accertato il mancato rientro dopo le ferie natalizie, la manifestata volontà di non proseguire il rapporto di lavoro con la resistente, l’omessa giustificazione della sua assenza nonché il mancato riscontro alle richieste di chiarimenti ed ai solleciti ricevuti dalla datrice di lavoro).
Alle conclusioni di cui sopra, il Tribunale di Udine non riteneva ostativa la disciplina richiamata in premessa e di cui all’art. 26 d.lgs. 151/2015, considerando che la facoltà di libero recesso prevista dall’art. 2118 cod. civ. era rimasta immutata e, pertanto, le dimissioni potevano continuare a configurarsi come valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetto di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica imposta con la novella del 2015.
Citando la sentenza in commento, l’art. 26 del D.lgs. 151/2015, invero, non può che disciplinare, per logica coerenza, la sola eventualità in cui la volontà del lavoratore si concretizzi in una manifestazione istantanea, ove vi è l’esigenza di incardinare la stessa in un atto formale al fine di prevenire ogni tipo di abuso e, in particolare, il fenomeno delle c.d. “dimissioni in bianco”, al quale la novella aveva inteso porre rimedio. Si deve ritenere, di contro, che non sia affatto riconducibile all’ambito applicativo dell’esaminato art. 26 il diverso caso in cui la volontà risolutiva del lavoratore dipendente si sia sostanziata, come accaduto nella vicenda al vaglio, in un contegno protrattosi nel tempo e palesatosi in una serie di comportamenti -anche omissivi- idonei ad assicurare un’agevole verifica della sua genuinità. Diversamente opinando, si giungerebbe, da un lato, ad imporre a un imprenditore il dovere di instaurare un procedimento disciplinare teso ad un licenziamento per giusta causa, quindi a dover sostenere il costo anche del relativo ticket Naspi; dall’altro, a sottrarre risorse pubbliche, destinate invero a coloro che davvero si trovano in un caso di disoccupazione involontaria (gli unici che avrebbero diritto alla Naspi), a beneficio di soggetti che strumentalmente creano i presupporti per accedervi.
La pronuncia della Suprema Corte dello scorso anno sembra quindi fare un passo indietro rispetto all’orientamento che andava formandosi onde porre rimedio alle assenze prolungate e strategiche volte a ottenere un ingiustificato accesso all’indennità di disoccupazione.
Anche a livello legislativo si è cercato di intervenire, con la presentazione di un disegno di legge volto a disciplinare specificamente il caso delle assenze ingiustificate protratte sine die (equiparandole nei fatti a dimissioni volontarie e quindi escludendo che possano dare diritto alla Naspi), che tuttavia ad oggi non ha ancora visto la luce.
Non resta dunque che attendere un intervento legislativo o nuove pronunce giurisprudenziali che possano chiarire definitivamente la questione, equilibrando la necessità di tutelare i diritti dei lavoratori con l’esigenza di prevenire comportamenti opportunistici di soggetti che deliberatamente decidono di non recarsi sul posto di lavoro al fine di ottenere un ingiusto beneficio economico a spese dello Stato.
*Avvocato in Milano