È LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE CHE POSTA SU FACEBOOK MESSAGGI OFFENSIVI RIVOLTI AL PROPRIO DATORE. E CIÒ ANCHE SE TRATTASI DI UN PROFILO “CHIUSO” AI SOLI CONTATTI STRETTI (CASS., SEZ. LAV., 6 MAGGIO 2024, N. 12142).
di Bernardina Calafiori e Eleonora Ilario*
Un lavoratore veniva licenziato per giusta causa per aver postato su Facebook affermazioni di carattere diffamatorio nei confronti della società datrice di lavoro.
Il licenziamento veniva impugnato dal lavoratore avanti il Giudice del lavoro.
In particolare, con il proprio “post”, il lavoratore, in modo “offensivo e dispregiativo”, aveva attribuito ai vertici aziendali condotte “apertamente disonorevoli ed infamanti”, di modo che risultava lesa l’immagine della Società stessa.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello di Palermo ritenevano tale condotta idonea a ledere in maniera irrimediabile il rapporto fiduciario tra le parti. Onde veniva confermata la legittimità del licenziamento impugnato.
Il lavoratore proponeva ricorso avanti la Suprema Corte di Cassazione, dolendosi, tra l’altro, del fatto che i giudici di merito non avessero accertato se effettivamente il post fosse stato idoneo a raggiungere una “moltitudine indistinta di soggetti” tale da determinare l’effetto diffamatorio.
Secondo il lavoratore ricorrente la circostanza che il post era stato pubblicato per un breve periodo e reso visibile solo alla di lui cerchia di “amici” avrebbe dovuto portare ad escludere un’apprezzabile potenzialità diffamatoria.
Chiamata a pronunciarsi sulla vicenda, la Corte di Cassazione, con il provvedimento qui in commento, ha ritenuto infondata tale doglianza del lavoratore ed ha quindi confermato la statuizione di merito.
Per la Cassazione, i giudici di merito avevano, invero, correttamente fondato il proprio convincimento sulle dichiarazioni dei due testi escussi in primo grado, i quali avevano riferito di aver “personalmente letto” il post ed il suo contenuto proprio perché pubblicato all’interno del profilo Facebook del lavoratore (e non, come sostenuto dal lavoratore, mediante uno screenshot del post diffuso contro la sua volontà).
Per la Cassazione, quindi, si tratterebbe di fattispecie diversa da quella in cui i messaggi, pur se offensivi, vengano scambiati in una “chat” o in un “gruppo” privati (non operando in tal caso la presunzione circa la potenzialità diffamatoria del mezzo prescelto).
Anche nel caso di profilo Facebook “chiuso”, osservano i Giudici di legittimità, “il messaggio, una volta immesso sul web” può “sfuggire al controllo del suo autore per essere veicolato e rimbalzato verso un pubblico indeterminato”, venendosi a determinare “la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica”.
Su tali presupposti, la condotta del lavoratore ben legittima il recesso dal rapporto di lavoro da parte della società, che si vede offesa e denigrata dinanzi ad una platea potenzialmente molto ampia.
*Avvocati Studio Legale Daverio & Florio