LAVORI SENZA SENSO E PAURA DI LIBERARSENE

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di Giovanni Dall’Aglio*

Nel suo saggio del 20181, Bullshit Jobs2, opinabile olluminante a seconda dei punti di vista, l’antropologo David Graeber sosteneva che un’epidemia di lavori inventati e senza senso stava generando gravi danni psicologici alla popolazione. Un “lavoro del cavolo” essenzialmente è un lavoro privo di scopo e significato. È diverso dal tipo di lavoro usurante che può essere degradante e mal retribuito, ma che in fondo svolge un ruolo utile e fondamentale nella società. Nel caso ad esempio di un netturbino (se possiamo ancora chiamarlo così), siamo di fronte ad un lavoro che dà alla società più di quanto riceva (se svolto onestamente). In un certo senso ha anche una finalità nobile, in quanto dovrebbe servire a rendere migliore e più bello il luogo in cui viviamo. Piuttosto, un lavoro del cavolo può essere prestigioso, comodo e ben pagato, ma se svanisse domani, il mondo non solo non se ne accorgerebbe, ma potrebbe addirittura diventare un posto migliore. In sintesi, questi lavori “prendono” più di quanto “danno” alla società. Sono ottimi per nutrirci, vestirci e darci un alloggio, permettendo a milioni di persone di vivere ben oltre i propri bisogni. Ma il prezzo da pagare per i lavoratori è la loro umanità.

Per Graeber infatti, “un essere umano incapace di avere un impatto significativo sul mondo cessa di esistere”. E sospetta che molte persone siano segretamente consapevoli dell’inutilità del proprio lavoro. Tuttavia, il problema di questi lavori va ben oltre la perdita di tempo, lo stress e l’infelicità, sebbene queste conseguenze siano molto serie. Si tratta di un problema sociale, causato da un nuovo tipo di sistema politico ed economico, che ha poca somiglianza con il capitalismo e che sta infliggendo una profonda cicatrice psicologica alla società.

Da qui forse l’intuizione più interessante del suo saggio, e cioè l’osservazione che il proliferare di tali lavori sia la negazione stessa del capitalismo, storicamente fondato sulla massimizzazione di profitti e minimizzazione dei costi. Graeber infatti, attraverso la testimonianza di centinaia di lavoratori, constata che esistono interi settori che non abbiano interesse ad essere efficienti in quanto fondano la propria esistenza sul prolungamento della durata contrattuale del progetto, e con essa anche dei costi, concludendo che interi settori della nostra società non siano governati dal capitalismo, ma da quello che lui definisce “feudalesimo manageriale”.

Riguardo il ruolo dell’automazione, Graeber sostiene come sia proprio essa che abbia permesso la proliferazione di lavori senza senso negli ultimi 30 anni, ma al tempo stesso potrebbe sollevare l’uomo da tali lavori se solo le società rispondessero con politiche come ad esempio il reddito di base universale. Quest’ultima narrazione è forse la parte più debole e opinabile del saggio, che ci spinge a fare alcune osservazioni più mirate e meno ideologiche.

Il rischio di un reddito di base universale è che l’attuale sistema, pur facendoci vivere nell’abbondanza, potrebbe aver prodotto troppi esseri umani vuoti dal punto di vista creativo, intellettuale e spirituale affinché il denaro gratuito possa magicamente renderli tutti soddisfatti da un giorno all’altro. Siamo cioè al triste paradosso per cui il lavoratore moderno troverebbe maggior “soddisfazione” nel riempire il proprio vuoto esistenziale attraverso lavori inutili che però lo farebbero sentire “produttivo”, piuttosto che trarre beneficio da una libertà che non è in grado di modellare e gestire. Dovremmo quindi cercare di non cedere alla tentazione di perseguire strade “facili” e immediate come quella del reddito di base, quanto piuttosto intraprendere un percorso culturale, più lungo e faticoso, teso ad incoraggiare il lavoratore a perseguire una professione più significativa per se stesso e gli altri.

In tal senso, l’ascesa dell’intelligenza artificiale non dovrebbe essere vista come una minaccia, ma una grande opportunità. La tecnologia oggi permette a chiunque di autodeterminarsi esaltando le proprie creatività e competenze. Piuttosto che ragionare in termini ideologici su modelli di società filo-Marxisti o turbo-liberisti, che poi sono due facce della stessa idea di società disumanizzante, forse dovremmo ambire ad una forma di “Romanticismo Tecnologico”. Il binomio tecnologia e spirito può sembrare un ossimoro, ma è proprio l’ascesa dei robot che ci spinge ad esaltare le nostre caratteristiche più “umane”, e cioè creatività, sensibilità e spiritualità.

I lavoratori infelici dovrebbero assumersi la responsabilità del cambiamento. E’ troppo facile incolpare “il sistema”, “le multinazionali” o la “classe dirigente” che alla fine fanno solo il loro lavoro, e lo fanno anche bene visti gli utili. Nessuno vi obbliga a svolgere un lavoro che vi rende infelici e che ritenete privo di senso. La triste verità purtroppo è che molti lavoratori, di fronte alla scelta tra un “lavoro stabile” ma disumanizzante e la scelta di un percorso più incline alle proprie passioni, si accontenta del primo.

Invece di riempire di “esperienze” vuote di competenze quel necrologio chiamato curriculum, invece di buttare tempo ed energia a lamentarvi della vita ogni sera all’aperitivo o peggio sognare di aprire un chiringuito ai Caraibi, forse dovreste trovare il coraggio di investire in formazione per imparare un mestiere che sia significativo per voi, e magari anche per gli altri, affrontando quella che lo psicoanalista Erich Fromm chiamava “paura della libertà”3.

 

*Ingegnere e PhD in Trieste

  1. Graeber, David. Bullshit Jobs: A Penguin UK, 2018.
  2. La traduzione annacquata italiana sarebbe “lavori del cavolo”, ma possiamo immaginare anche altri termini più appropriati.
  3. Fromm, E. (1941). Escape from freedom. New York, Rinehart.

 

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